Luciano Marchi – Una notte con Rita

NEWSLETTER DEL 02/06/2023

  UNA NOTTE CON RITA Nevicava forte, come non te lo saresti aspettato. Lo diceva anche la radio, a tal punto che la scusa, quella di rimanere a Porretta, assumeva contorni più solidi. Entrambi, Rita e Fabrizio, avevano armeggiato a lungo col telefono: “ Sì, il Cliente mi riceve tardi, tornare sarebbe faticoso”. Poi: “Le strade, il ghiaccio, le curve”.
Insomma: era andata bene. Perché si trovavano lì? Fabrizio l’aveva chiesto da tempo, ma lei rimandava sempre. Non erano amanti, questo no: amici certamente sì. Un bacio c’era scappato, ma tanto tempo prima, a Bologna: sui colli. Anche quella volta non si era accesa la fiamma, ma lui ne andava giustamente orgoglioso. Lei? Non lo sappiamo: questioni di donne; forse Rita aveva voluto donare un po’ di tenerezza a Fabrizio, quasi che la confidenza (e la stima) ne fornisse il permesso. Adesso erano a Porretta, entrambi spauriti: perché l’amicizia non è come l’amore e non comprende la complicità.

Se li avessero scoperti, si sarebbe trattato sempre di tradimento: ma non per loro. Si erano presi una pausa, ecco tutto: come se l’una avesse dovuto offrire qualcosa all’altro, e viceversa.



Erano arrivati presto. La bugia prevedeva tempi lavorativi, quelli di tutti giorni. Di andare subito in Hotel non se ne parlava neanche: era meglio fare scattare la menzogna più tardi e comportarsi di conseguenza. Durante il viaggio, Rita si era mostrata un po’ sofferente, almeno fino alla nevicata; giocava in terra straniera, per cui un po’ di ritrosia era comprensibile. La strada per arrivare era lunga e tortuosa, ma non per Fabrizio: che la conosceva come le sue tasche. Il sentirsi del luogo lo rendeva padrone della situazione, questo anche se, arrivato a Porretta, lo avrebbero riconosciuto in molti.
Mentre guidava però si sentiva diverso, maggiormente fiero di se stesso: padrone del suo tempo. Erano belli insieme, Rita e Fabrizio: a vederli camminare sembrava giocassero. Lui cinquantenne, pelato, su di peso; lei? Bellissima, come poche: una Dea. Insieme però stavano bene, questo anche ad un occhio altrui. Evidentemente c’era dell’altro, anche solo a livello estetico, che potesse giustificare una differenza d’immagine. In effetti Fabrizio, pur grassoccio, non era goffo, ma alto e, a suo modo, elegante: almeno nelle movenze; poi risultava simpatico, modesto, educato, sensibile. 

Già, sensibile. A Rita questo piaceva, e non lo nascondeva. La sua bellezza l’aveva circondata di coraggiosi, spacconi, riccastri o addirittura palestrati: tutte persone di scorza. Fabrizio era diverso, perfetto nel carattere: almeno conoscendolo da amico. Di lui invidiava la tendenza alla commozione, il parlare forbito, anche quella cultura non ostentata, ma presente: nel verbo e nel gesto; qualità importanti, ma non tali da scardarle i seni, da farle desiderare di concedersi tutta, a lui. Eppure doveva esserci un grimaldello, una chiave che forzasse la logica, che potesse concederle il permesso della fuga, per sentirsi donna una volta di più: anche semplicemente con Fabrizio. Questo era il segreto di Rita: capire la vita e l’amore, con un’opportunità razionale, che le spiegasse il passato, ed anche il futuro prossimo. L’amore, si ripeteva sempre, non è a caso

.

Il gioco degli amici era durato tutto il giorno. Lui usava il meglio di sé: la passione del luogo, del momento ed anche quelle di una vita. Aveva sognato per anni quegli istanti, per cui maneggiava la macchina fotografica con perizia. Le diceva: ”Così, adesso, brava”. E intanto, scattava: guardava, si convinceva e scattava ancora. Rita era un dono, offerto con garbo. Fabrizio le aveva chiesto di presentarsi elegante e la risposta la riceveva ogni momento, che l’emozione gli si strozzava nel respiro. Rita era la donna, quella donna, la sua donna: colei che avrebbe dipinto o disegnato, forse raccontato; come in quel libro che aveva in valigia, che le avrebbe letto tra le lenzuola. Ma dopo. La neve continuava a scendere ed entrambi continuavano a giocare. Erano saliti e scesi più volte dal treno, per andare al “Pallone”, a Biagioni e poi più su, a Pracchia.
Fabrizio le aveva promesso il sole, così decisero di proseguire in Toscana, fino a Corbezzi. Il treno si mosse, e subito fu in discesa. I due si trovavano in piedi, l’uno di fronte all’altra. Uno scossone improvviso spinse Rita verso Fabrizio, così che l’uno percepì il corpo dell’altro: lui e seni, lei la presenza. Non si baciarono, ma capirono che tra loro esisteva una via percorribile: almeno solo per “vedersi” fare l’amore, senza concedersi del tutto. Fu Rita a smorzare i toni, come spesso aveva fatto in altre circostanze simili. Fabrizio non lo tollerava.
Quando tra i due iniziava a serpeggiare l’idea del contatto, lei s’inventava un discorso lontano nel tempo, con dei riferimenti inconsueti:“Ti ricordi quando hai bucato in autostrada?”, domandò lei.“Quando? Dove?”, rispose lui; ma già pensava a come riavvolgere il gomitolo della loro giornata insieme. Essere lì con Rita era un miracolo, che andava mantenuto vivo momento per momento. Il treno aveva preso velocità, poi iniziò a rallentare. Uno stridere dei freni si aggiunse al chiasso della galleria, poi il rumore divenne ovatta, e fu silenzio.
Una luce abbagliante scaldò il finestrino e lo sguardo di entrambi. Lui la prese per le spalle, voltandole lo sguardo verso valle. Lei si appoggiò di schiena al corpo di lui. Erano ancora bagnati per via della neve, segnati dalla giornata. Sembrava che qualcosa fosse successo realmente, perché adesso erano diversi, inadeguati al luogo. Lei girò lo sguardo cercando altri occhi; lui, sempre di spalle, le cinse la vita. Si baciarono. 
Il ritorno a Porretta fu un viaggio di silenzi. Lui avrebbe voluto spiegarle tutto sulla ferrovia: gli sbancamenti della galleria di Piteccio, i viadotti, le rampe di lanciamento, le storie vere e inventate. Non ce ne fu modo.
Rita guardava fuori con insistenza, pensava; Fabrizio si consolò controllando le sue fotografie con soddisfazione. Qualcosa era successo.



Arrivarono a Porretta che era buio. Nevicava ancora, ma i fiocchi erano più sottili. Scesero dal treno e, sempre in silenzio, si diressero all’Hotel Milano con un incedere sicuro. Ogni tanto Fabrizio salutava un passante, senza ritrosia: Lei, la novità, valeva la pena di essere vista. E poi? Che male c’era? Loro due erano dichiaratamente diversi, anche a loro stessi. Quando giunsero alle scale della piazza, Rita cercò il braccio di Fabrizio: per via dei gradini gelati.
Lui quella volta si sforzò di non capire, ma finalmente la presa di lei era salda, decisa: concessa del tutto; sentiva che Rita avrebbe potuto abbandonarsi sulla sua spalla, dedicandogli anche lo sguardo.Ancora pochi passi e furono davanti l’Hotel. Tutto era nuovo e previsto, immaginario e consueto: comunque vero. Quando alla reception i due capirono che vi erano due nomi per una stanza, matrimoniale per giunta, incrociarono i loro sguardi, quasi a chiedersi qualcosa.
Ma ormai era fatta: la marmellata, le dita dentro, il barattolo aperto. Ci avrebbero pensato domani. La stanza si trovava al secondo piano. Entrambi usarono il vecchio ascensore di fianco alle scale, che sapeva tanto di legno; dopo percorsero un lungo corridoio, fino in fondo. La loro porta era l’ultima.Entrarono, come due che fossero scappati di casa.
Chiusa la porta alle spalle, tornarono ad essere loro stessi, ma uomo e donna: lui indifferente all’arredo, lei maggiormente attenta; lui goffo, lei essenziale; lui impacciato, lei automatica in tutti i gesti.Disfarono il bagaglio in silenzio. Fabrizio aveva raddoppiato un po’ tutto, indumenti e cosmetici, perché immaginava che lei si sarebbe portata dietro ogni cosa. In realtà non fu così: il bagaglio di Rita era essenziale, anche se curato ed ordinato.
Mentre riponeva gli oggetti, osservava la stanza con più cura: gli angoli, le tende, il bagno. Non incrociò mai gli occhi di Fabrizio, che intanto si era relegato in un angolo, quello con la sedia. Era spaventato, più
di quanto non lo fosse Lei.
 

Non ti togli il cappotto?”, chiese Rita, di spalle: senza guardarlo. “Chiio?”, rispose Fabrizio.“Perché c’è qualcun altro qui?”, aggiunse lei.Fabrizio fece una smorfia, perché quel tipo di frase se l’era sentita dire tante volte: dalla madre, dai professori, da tutte le persone che, in certi momenti, avevano notato in lui atteggiamenti d’imbarazzo. In realtà, molte volte si trovava a pensare: il che rallentava il ritmo dei suoi gesti.
Quella stanza non era ancora sua, ma il set di un film. Le persiane antiche, appena illuminate dai lampioni della strada, la stessa luce: tutto, per lui, creava sensazioni e ricordi, immagini da pensare e ricreare, un mondo incantato nel quale lasciarsi andare. Fabrizio si tolse il capotto e lo buttò sul letto, come faceva sempre.“Non usciamo?”, chiese lei.Lui non rispose, ma ripropose la smorfia di prima. Sì, sarebbero usciti: per cena. Lei aprì la porta, lui la seguì; questo dopo aver dato un’occhiata a ritroso alla loro stanza, alle cose , alla luce delle persiane, a dove sarebbero tornati: dopo. 

Raggiunsero il ristorante di corsa. La neve cadeva più fitta ed era bello camminarci sopra tanto era asciutta. Fabrizio rischiò di cadere e Rita si mise a ridere, come sempre di fronte alle goffaggini del suo amico.Entrarono nel locale e non c’era nessuno. Ne furono felici, perché avrebbero potuto scherzare su tutto e tutti, sorridere del passato e di alcuni amici, magari prendersi in giro a vicenda. Eccoli lì, i nostri due: seduti uno di fronte all’altro, soli nella loro amicizia. Si vedeva che non erano amanti, perché il loro colloquio risultava troppo discorsivo. Lui gesticolava, lei ascoltava e a volte sorrideva, ma a loro piaceva così. Fabrizio adorava vederla ridere, perché diventava più bambina; Rita avrebbe passato ore ad ascoltarlo, anche al di là del senso delle parole.


Lasciamoli ancora al ristorante, lasciamoli soli. Torniamo nella loro stanza.
Ad accoglierli avrebbero trovato due mondi, distinti: uno spazio dell’uno ed un angolo dell’altra. A dire il vero non avevano ancora deciso da che parte dormire, perché il pigiama di lui era sulla sedia e l’intimo di lei nell’armadio. Di bello c’era la luce, calda, debole; con quelle lingue più chiare che le persiane producevano al passaggio delle auto: prima sul muro, poi, di continuo, sul letto e nell’armadio di fronte, fino al soffitto. Il luogo però era quello giusto e sembrava quasi aspettare la coppia. Non ci sarebbe stato né un dare, né un avere: neanche il gioco che si consuma; no, forse solo un concedersi con rispetto, per conoscersi anche lì: magari ridendoci sopra.
L’amore? Parola grossa, troppo: soprattutto per loro; ma gioia sì, nel farlo e non perché lo si fa; col solo rimpianto di non essersi conosciuti da piccoli, tra i giochi (quelli veri) di un’infanzia ideale. Eccoli di ritorno, Rita e Fabrizio: sempre più ebbri dei loro racconti. Lei lo spinge, lui le copre il viso col cappuccio. Lei corre, lui la insegue. Davanti all’Hotel sono senza fiato: Fabrizio con le mani sulle ginocchia e Rita che lo guarda dall’alto con affetto. Poi lei gli scompiglia i pochi capelli e dice: “Andiamo, vieni
”. Sono soli, adesso: nella loro stanza. In piedi, l’uno di fronte all’altra, si guardano per capire il come. Lui le apre il cappotto, lei ride. Fabrizio si ferma, sorride.

Gli occhi sono nello sguardo dell’altro: c’è un diaframma da rompere, un comportamento nuovo da intraprendere; bisogna decidersi, come di fronte ad un viaggio senza ritorno, dove comunque si perderà qualcosa. L’esitazione continua, ma la smorfia questa volta è di lei. Rita si toglie il cappotto, allontanandosi; lo ripone nell’armadio, in silenzio. Fabrizio la guarda e lei continua a svestirsi, senza malizia: ora di spalle, ora di fronte; sempre con lo sguardo altrove. Gli ultimi due indumenti li lascia allo sguardo di lui, ed anche alla sua volontà. 
Le mani si cercano, amiche anche loro di un atto da vedere e non da vivere; non riescono ad accarezzare, ma solo a sfiorare.
La pelle di lei ha il color della luna e per Fabrizio è una scoperta; i seni no, sono quelli che aveva immaginato, così come i fianchi: esaltati dalla vita e dalle gambe.
Stanno facendo l’amore, Rita e Fabrizio. Tra i sospiri riconosciamo i loro nomi, ripetuti a vicenda: come in un soffio.
I corpi si muovono, l’uno dentro l’altra: accompagnati dalla luce delle persiana, che sembra spingerli, ancora, di più, più forte.
Lei ha la testa all’indietro e le labbra socchiuse. Sì, era possibile: donarsi anche solo per gratitudine, per la felicità di Fabrizio; persino guadare le proprie gambe flesse, piegate all’amore, convulse dai sussulti di lui, che ora le respirava sul collo.


Oddio” disse lei: “Oddio”, ripeté; come fosse un urlo. Fu un bacio a strozzare gli ultimi gemiti; e poi un altro a fermare l’amore. Meglio smettere di origliare, lasciando a Rita e Fabrizio il loro tempo. Cosa ci auguriamo per loro? Che abbiano fatto l’amore tutta la notte, ma che magari siano stati capaci di parlarsi ancora, in quella stanza diventata la loro: per sempre.
Magari Rita si è addormentata prima, con Fabrizio intento a guardarla. Il giorno dopo tutto sarebbe tornato come prima, con un ricordo in più: di quelli belli, da non raccontare. 
E’ stata lei a svegliarsi prima: severa, impegnata a mettere a posto le sue cose. “Adesso mi preparo e andiamo via”, aveva detto lui.“No, vado da sola, prendo il treno”, era stata la risposta di Rita.
Un bacio? L’ultimo? Non lo sapremo mai. 
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