Don Giorgio – in definitiva Vergato sarà paese dei morti, perché nessuno può abitare.
2015/04/24, Vergato – La guerra a Vergato raccontata da don Giorgio Pederzini allora cappellano, colui che ci ha consegnato queste memorie vissute. In questi giorni della memoria, con le iniziative in corso, queste parole trovano un’altro significato da consegnare alle giovani generazioni.
RASSEGNA PERSONALE DI ALCUNE COSE DI QUESTO MONDO di don Giorgio Pederzini
(Tratto dal libretto commemorativo stampato in occasione della sua morte, 7-11-2010). Le foto, frutto di mostre e collezioni private sono state raccolte da Alfredo Marchi. Note ai più interessati alla ricostruzione di questo periodo, svolgono un’importante funzione documentale per i giovani e i nuovi abitanti di Vergato).
27 novembre 1943
Vergato è bombardato alle 12.30. (…) 52 vittime. (…)
Io mi trovavo in chiesa: ho dato l’assoluzione a quattro persone che si erano rifugiate.
Poi, dopo lo sgancio, esco verso la “campana” e vedo quattro soldati, presso la scuola, massacrati da schegge e dallo spostamento d’aria.
Corro in canonica a prendere l’olio santo e riprendo la corsa da un posto all’altro del disastro per amministrare i Sacramenti ai moribondi: c’erano con me l’Arciprete ( mons. Enzo Pasi) e il parroco di Carviano (don Anselmo Cavazza).
Agosto 1944
E’ il mese fatale per Vergato: gli attacchi si ripetono con insistenza impressionante. La permanenza in paese è un sfida alla morte. Difatti ecco il 22 indimenticabile: verso le 11 massicce formazioni sorvolano, il paese e sganciano a due km. in direzione di Prada; nell’aperta campagna; ma poi ritornano e sganciano il carico distruggitore in due ondate terribili.
Chiesa, Comune, sei case com-ple-ta-men-te annientate, asilo e parte centrale del paese, ancora
distrutte fino in fondo. Via Monari tutta inabitabile: in definitiva Vergato sarà paese dei morti, perché nessuno può abitare. (…)
Nei giorni seguenti incomincia la rimozione delle macerie: noi ci adoperiamo per rintracciare il
Santissimo coinvolto nella rovina della chiesa.
Con don Emilio, troviamo due particele desiderate, e con l’Arciprete altre due: le altre venti le lasciamo alla cura degli angeli.
Natale di guerra: 1944 a Casigno
Da quattro giorni è stato affisso alle porte delle case il foglio d’ordini, che impone ai civili di evacuare entro il 26 dicembre.
(…)
Il 24 sera porta la prima neve sulle strade deserte, sulla campagna, sulle case.
E il 25, Natale, vede una fila interrotta di profughi che rompono la neve, carichi di fagotti, curvi sotto zaini improvvisati e colle lacrime agli occhi. Per andare alla chiesa di Casigno, faccio la strada a
ritroso, e mi fermo alcune volte a dar la benedizione e il conforto che gli sventurati implorano da Dio.
In chiesa trovo una decina di persone e alcuni soldati. Dalle finestre senza invetriate entrano folate di vento gelido, a intirizzire le mani e il volto del parroco che dice la S. Messa. Alla fine della terza il celebrante si volta al popolo, seminato nelle banche e tenta di salutarlo e augurargli il Buon Natale, proprio uguale a quello vero di Gesù: nel freddo, nella miseria, fuori di casa sua.
La commozione stringe la gola, e dalle labbra non escono che poche parole mozze, assieme a molti
singhiozzi. E il popolo, che piange, dimostra di aver capito.
Io cominciai la pria delle mie tre messe: ho molto freddo e temo di non arrivare a dirle tutte senza
interrompere. All’inizio della terza avviene l’inaspettato: una granata scoppia pochi metri dalla chiesa.
L’incontro di un Natale tranquillo era in precedenza amareggiato da quel che ho detto: ma questo colpo di cannone mi getta nell’animo uno schiaffo di mortificazione che avvilisce.
La guerra non da tregua, neppure il giorno di Natale. E ho dovuto lasciare l’altare, e rifugiarmi nel
campanile, vestito da paramenti sacri ad aspettare che cessasse attorno all’altare di Gesù il fragore delle armi di questi uomini selvaggi perché non cristiani.
A messa finita ho salutato il parroco, sorpreso di essersi commosso in quel modo, e son tornato in fretta e trepidante alla casa che mi ospitava, a trascorrere il resto di quel giorno non diversamente dal modo monotono e insignificante con cui passavo gli altri giorni di attesa.