Le origini di Balanzone, la più famosa maschera bolognese e… vergatese!

Umberto Bernardi; Burattinaio, storico dell’antico carnevale vergatese e ricercatore

2017/02/28, Vergato – Martedì grasso, domani Mercoledì delle Ceneri, primo giorno di quaresima e come da buone tradizioni locali…qui finisce il carnevale!

Il saluto a questo intenso periodo di Carnevale lo da Umberto Bernardi con un’altro “pezzo” importante per la vita artistica vergatese, sia come maschera apparsa in diversi spettacoli al cinema teatro, che come personaggio “imponente” del Circolo Galeazzo Marescotti, i burattini vergatesi tanto amati da grandi e piccini. (Vai al sito; Burattini a Vergato)

Le origini di Balanzone, la più famosa maschera bolognese.

Il Dottor Balanzone e Brighella sono le uniche maschere classiche della commedia dell’arte che sopravvivono ancora. La maschera prima di concretarsi col nome di Balanzone ebbe denominazioni varie: Dott. dei Violoni , Dott. Forbrone e con altri nomi non meno caricaturali: Graziano delle Cotiche, Bombardo, Scatlon, Graziano Scarpazon e Campanari. In Francia la popolarità della maschera bolognese non fu inferiore a quella goduta in patria assumendo altri battezzi . Come per altre figure della commedia dell’arte anche il Dottore disputa l’origine del suo nome: Balanzone o Ballanzone troverebbe la sua giustificazione etimologica riferendosi alle balle (Frottole) che il Dottore sparge a piene mani. Ma il Menarini ci fa osservare che la parola popolare “Balla” oltre che essere di data più recente dell’epoca del personaggio, significa anzitutto frottola , bugia mentre il Dottore è pomposo, balordamente seccante, dispensatore di sproloqui senza fine, ma non bugiardo. Così conclude l’eminente linguista: Appare più probabile ricercare la spiegazione nella bolognese “Balanza” (Bilancia) simbolo della giustizia di cui Balanzone dottore in legge si vanta di essere rappresentante. A Bologna nei secoli rinascimentali e barocchi i cittadini laureati in giurisprudenza, nelle scienze mediche e matematiche erano tali e tanti da non avere possibilità alcuna di occupazione, costretti a girondolare nei luoghi pubblici per ammazzare la noia e farsi credere pienamente affaccendati. Tutto ciò spiega la propensione del popolo di beffarsi di questi inutili popolani tanto da suscitare interpretazioni caricaturali.L’abito del Dottore ritiene ancora l’antico costume dell’Università della curia di Bologna e la singolare maschera che gli copre la fronte e il naso è stata immaginata in conseguenza ad una macchia di vino che deformava il volto di un giureconsulto di quei tempi. Così parte una tradizione che vige tuttavia presso dilettanti della commedia della arte. Il Balanzone dei burattini non si differenzia molto da quello classico della commedia dell’arte, fu forse possibile che la maschera conservasse il carattere e la fisionomia trasmesse da attore ad attore, da burattinaio a burattinaio bolognese, quale geloso patrimonio di arte comica e di folclore dialettale. Sia gli attori che i burattinai ebbero nel secolo scorso la saggezza che di grottesco esse contenevano ricevendone solo la parte più efficace ed espressiva. Il Balanzone dei burattini è vestito completamente di nero, di bianco non ha che il collarino, i polsini e un gran fazzoletto affidato alla cintura. Porta il cappello alla Don Basilio e il mantello. Gli copre il volto sanguigno di baffuto e ben portante sessantenne, soltanto una mezza maschera nera per la fronte e per il naso. Balanzone occupa sempre la parte destra del boccascena, l’altra è riservata a Fagiolino. Nel gioco delle commedie burattinesche Balanzone è ancora oggetto e vittima dei lazzi dei servi e delle belle le quali, nonostante l’età gli eccitano l’immaginazione, ma molto più spesso esso assume le parti del responsabile e giudizioso riscattando così a distanza di un paio di secoli, per ironia della sorte, in virtù della testa di legno la grottesca forma ereditata dai suoi antenati.

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Il dottor Balanzone è sicuramente l’erede di un altro dottore della commedia dell’arte il dottor Graziano. Non sappiamo chi sia Graziano, nè da dove tragga la sua origine. Come accade spesso nella Commedia dell’Arte questo nome potrebbe derivare dalla prima persona che lo portò sulle scene o il suo interprete più famoso (non è raro che attori diano nomi ai personaggi), ma non possiamo stabilirlo con certezza.

Sembra però che le origini del dottor Graziano a differenza del dottor Balanzone non siano bolognesi,  e anche il vestito sia diverso, è scritto su una Pagina di discussione di wickipedia.

“Il personaggio di Graziano è diverso da quello di Balanzone. In alcune parti, questa pagina confonde la nota maschera bolognese con la sua spalla nata a Ferrara, sulla quale, a mio avviso, bisognerebbe scrivere una pagina a parte. Il Dottore, a sua volta, è una terza maschera, distinguibile da Balanzone per via della toga più lunga e della maschera bianca a forma di becco che gli copre tutto il volto. Come personaggio, Graziano si distingue da Balanzone perché più fanfarone e pedante e il suo costume è tutto diverso da quello di Balanzone: è una caricatura della divisa dei professori dell’università di Bologna nel Cinquecento composta da pantaloni a sbuffo, giacchino aderente con maniche ampie, scarpe a punta e senza tacco e una calotta scura come cappello. Inoltre, Graziano, nelle commedie, rappresenta il padre di una dama, un amico o rivale di Pantalone, oppure il consigliere di un re. Infine, per quanto riguarda Balanzone stesso, non sarebbe male scrivere la storia del suo costume specificando che l’attuale fu inventato nel Seicento dal commediografo Agostino Lolli. In origine, il costume di Balanzone era costituito da una tunica con bavero bianco e calze più lunghe e, oltre ai baffi, questa maschera aveva folte sopracciglia e una barbetta appuntita. Lolli modificò il costume indossando casacca e pantaloni al posto della tunica e una gorgiera al posto del bavero (ma mantenendo la toga e i polsini che il personaggio aveva sempre indossato) ed eliminando le sopracciglia e la barbetta.”

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Qui darò un dipiacere a tutti i bolognesi e sopratutto al mio medico “Dottor Gadenghi” grande interprete della maschera del Dottore nel teatrino dei Burattini, è possibile che le origini di Balanzone  “la maschera di Bologna” sia figlio di un altra città, al quel tempo molto distante e spesso in guerra con Bologna, la città di Ferrara. Balanzone figlio di un extra comunitario nato a Ferrara?Si, precisamente a Francolino. Per ulteriori informazioni la frazione o località di Francolino dista 7, 31 chilometri del medesimo comune di Ferrara di cui essa fa parte.

Giuilo Cesare Croce ci svela il mistero, nelle “ Le cento e dodici Conclusioni”del plusquam perfetto dottor Gratiano Partesana da Francolino Francolino (FE)?

Le cento e dodeci conclusioni in ottava rima del plusquam perfetto dottor Gratiano Partesana da Francolino

IL DOTTOR GRATIANO

alli lettori

 

A son, sa nal savidi, Gratian,

Addutturad in tutte le rason,

Poeta chgnusud da luntan

E da pressa a so star al parangon;

Medeg insolent da guarir unsan,

Astrolog, che chgnos squas ugnon

E Nigrumant, da far a truvar

Quanta roba se vol, cun i denar.

Le cento e dodici conclusioni del dottor Gratiano Partesana da Francolino 

Mi son, com se sa, quel gran Duttor

Sì famos in le littre, e sì sfundrad

Che di tut i longista a son mior,

Al più savi, al più dot, al più agarbad,

Filosf, e delinquent parlador,

Logico e fisico pien d’autoritad,

E chi non crede a la mia scienza bona,

Guarda la vesta, e po’ la mi persona.

 

Qual dì ch’a sustintè st’ cunfusion

A hiera in la mia patria, a Franculin,

E sovra Marc Tullij e Ciceron

A fiè un convent vulgar e un latesin,

Quand’havì dischiarà la mia upinion,

Qual fu intesa da pres e da vsin,

I se stupin d’mond, e d’tal via

Ch’agn hom s’innamuriè dal fat mia.

Qui cominciano le conclusioni, e prima 

  1. La rosa ch’è fiorida sa da bon,
  2. E l’homo che camina n’n’è mort,
  3. Un che sempre habbia stort, mai ha rason,
  4. La nav ch’è in alt mar, è via dal port,
  5. Chon on vol star in spas, fazza qustion,
  6. E chi non vol andar pian, camina fort,
  7. E quel ch’è fat quadr, non è tond,
  8. E chi non vol esser prim, sippa second,
  9. Un stort e un gob non sarà mai drit,
  10. E al dì d’ancua non po’ esser doman,
  11. Quel c’harà fat qualch gran delit

Ch’al guarda a non andar al boia in man;

  1. Un affamad harà grand’ appetit,
  2. E un ferrares non sarà mantoan,
  3. Quel che va sol è senza cumpagnia,
  4. E chi non vol andar inanz, resta d’dria,
  5. Una donna che fazza di fiuo

Al se po’ dir qualchun l’ha ingravedada,

  1. Un che staga lontan sempre da i fuos

Al non sta appresso della so brigada,

  1. I cisar non in fat com’ è i fasuo,
  2. E una dunzella non è maridada,
  3. Un zentilhom non è cuntadin,
  4. Es ha più temp un vecchi d’un puttin,
  5. Un ch’è adurmintà non è sveggiad,
  6. E chi sospira par de mala vuoia,
  7. Un inferm se può dir’ amalad,
  8. E quel che crida fort, ha qualch duoia,
  9. Un che sippia ghiutton, l’ha del trincad,
  10. E chi va nud’ in let, al se despuoia,
  11. Un che sia mort non po’ più parlar,
  12. E chi non vol far una cosa lassa star,
  13. Un fiol ch’è nassu, vist al present

Ha manc temp che non ha so par,

  1. Un vecchi, che non appa in bocca dent,

Al dura gran fatiga a mastgar,

  1. Un che sia ricch d’or e bon arzent,

Al pol spender, sal vol, e truinfar,

  1. E po sostent ancor con mille prov

Ch’al se bagna la testa qual al piov,

  1. Un ch’è <a> caval, al non m’par a pia,
  2. E chi è in barca non camina in terra,
  3. Chi vol star san, ni pias la malatia,
  4. E un che sia pultron, fuzza la guerra,
  5. Chi n’ha dinar, non vaga all’hustaria,
  6. E a chi ni pias l’us avert, ch’al serra,
  7. E si ve prov’ ancor per mille strad

Che con li ove se fan bon frittad,

  1. Un che nons tudia non sarà duttor,
  2. Chi n’è curtes, sarà tgnù villan,
  3. Quand’ al sarà sunà le quindes hor,

Al vegnirà le sedes a man a man,

  1. Un che sia becch, la pers al su hunor,
  2. E un che roba, l’ha cattive man,
  3. Chi va descalz al n’porta scfon,
  4. E s’è bon i fasan, e anch i cappon,
  5. A prov’ ancora ch’un che sia castrà

Harà una gran fadiga a zenzerar,

  1. E chi è alla villa è fuor della città,
  2. E chi ha la rogna, ha spesso da grattar,
  3. E chi è vecchi ha del temp pur assà,
  4. Un senza gamb stenta a caminar,
  5. E chi casca in tun poz o in t’un androna

Se bagnarà la vita e la persona,

  1. Colù che va lontan dal so paes,

Al se descosta dalla so città,

  1. Chm’ un l’ha trenta dì, l’ha squas un mes,
  2. E sal n’ha trentadu al l’ha passà,
  3. Le cos ascos n’se fan pales,
  4. E assa’ zent la not l’è adurmintà,
  5. E po farò veder a l’ignurant

Ch’al polent non è vers al lovant,

  1. Un gulos vurè sempr un bon buccon,

Pur ch’al se trova chi ial vuoia dar,

  1. E tutti quij ch’andaran in preson

I starn lì fin ch’i lassan andar,

  1. Al fred un despojà non ha del bon,
  2. Quand’è du insem al se po’ dir un par,
  3. E che d’invern mai canta al cuch,
  4. E chi è de carne non sarà de stuch,
  5. Quand’ al se vede l’alba ch’apparis,

Quell’è segnal cal vo’ vgnir al dì,

  1. Quand’un guarda una cosa fis, fis,

Sal non la ved, l’è mez adurbì,

  1. Un che lassa al bon vin e s’ bev al pis,

O l’ha pers al cervel o l’è ammatì,

  1. E un che non ha barba in sal mustaz

O al n’l’ha fatta, over che l’è un ragaz,

  1. Quel che tra’ via la roba <è> un gran minchion,
  2. E quel che la ni pias è ancora più,
  3. Chi lassa un gallinaz per un pizzon

L’è ben da chiamar mat e turlurù,

  1. Chi brama dal cattia e lassa al bon,

L’ha poc’ inzegn’ a dirla qui tra nu,

  1. E, segond che mostra al mia quadern,

L’è più cald l’istà che n’è l’invern,

  1. Un che n’n’oda mai die esser sord,
  2. E chi n’parla sarà tegnu mut,
  3. Quel che manza con furia ha dell’ingord,
  4. E quel che fa del rest, fa de tut,
  5. Un c’ha poc zervel, ha del balord,
  6. Es pias assà più al bel a ognon che al brut,
  7. E al dir d’tut, l’è mei haver quattrin

Che andar per le merzè di sua vsin,

  1. Un che lavora sempr’ al dì e la not

Se po’ chiamar un hom affadigà,

  1. Un che manza se ben al non è cot,

O che l’è un lov, o che l’è affamà,

  1. Un, che zugand a i dà, tira disdot,

E se pol dir ch’al tira pur assà,

  1. E un desperad, che sia senza confort,

Se al s’ammazzas, al se darè la mort,

  1. S’una donna voles far bugà,

Al ghe va fuog, cener, legn e savon,

  1. A un che sippia de vita passà

Non ghe zova sirop, pilol’, o untion,

  1. E chi ha della fameia pur assà,

Sal la cuntenta tutta, al fa un gran bon,

  1. Perché al dis al pruverbi, infra la zent

Che ognon vurè a st’mond’ esser cuntent,

  1. Un c’happa despiaser, ha gran’affan,
  2. E chi ha di zocch, po’ far d’le stel,
  3. Chi va cercand al mal, trova al mal’an,
  4. E quand al piov, l’è bon al capel,
  5. Quel che perd la roba, al se fa dan,
  6. E un mat non ha trop cervel,
  7. E con bon fundament a prov’ ancora

Ch’un bel murir tutt’ alla vint’un hora,

  1. Tosto chal sol se lieva in urient,

La not fuzz con tut le strel,

  1. Cosa per forza mai non vals nient,
  2. E un che manza mena le massel,
  3. Un puvret che non ha nient

Non po’ fallir per quest né per quel,

  1. E un che casca e chal sia da per lu,

Ch’al n’aspetta nigun chal leva su,

  1. E sal pan no se fies de farina,

Sarè soverchi a semenar furment,

  1. Un che sia san non tuoia medesina,
  2. E chi n’è ben vestì, non vaga al vent,
  3. E se qualch’un n’èp tgnir l’urina,

Sal non la pissa al n’farà nient,

  1. Et ego probo col mie bas inzegn

Ch’un baston gross se po chiamar un legn,

  1. Chi vol passar al mar, lassa la riva,

Altrament al starà de zà o de là,

  1. L’uolij da frizzer vol esser’ d’oliva,
  2. E chi sta sempr ferm, mai non va.
  3. Un senza fia non po’ sunar la piva

Al iuditij d’ogn’hom quest al se sa,

  1. Un che rasona vurè dir qualche cosa,
  2. E chi dorm in tal let par che reposa.

Quest in le cent e dods conclusion

Le qual mi ho deschiarà, vist al present,

Dnanz al duttor Zocca e Smurfion,

E Michlin, duttor tant insulent,

E tut i altr, che fan prufession

De sta scientia, canaiole o zent,

C’han dit ch’a sustent la busia,

Ch’i studia prima, e po chi viegna via.

Ch’a i mustrarò con la rason in man,

A chi voles contra aregumentar,

Ch’a son duttor, e son al ver Gratian,

Quel c’ha insegnad a tut de parlar.

Al mond me cugnos, le zent al san,

Se so chiar i dubij e disputar,

Qui che diran che mi non son dutor,

Recipe, al so mustaz un cagador.

Finis.

I testi sono tratti dalle copie digitali realizzate nel 2006 dalla biblioteca Comunale dell’Achiginnasio e dal paziente lavoro di trascrizione nel sito

www.giuliocesarecroce.it/trascrizioni.htm

Ricerca; Umberto Bernardi, Vergato 02/2017