UN FOTOGRAFO DI GUERRA Frank se ne era andato all’improvviso, quasi senza salutare. Da una busta aveva tirato fuori delle fotografie un po’ sbiadite.“Günter faceva il tuo mestiere”, aveva detto; lasciando nelle mani di Luciano un mazzo d’immagini, come fossero carte da gioco. La storia di quel soldato era una delle tante già sentite, ma di mezzo vi erano quei frammenti di tempo cercati oltre la guerra, durante i vent’anni, con la curiosità della gioventù. Frank ormai era oltre la piazza. Col passo agile di sempre, si era fatto largo tra i passanti. A Luciano non rimanevano altro che i pensieri, le idee, i frammenti di un’epoca passata eppure attuale. Questa volta, però, le fotografie potevano raccontare; e lui avrebbe guardato oltre, anche immaginando se necessario.
Meravigliandosi. Günter abitava in una bella casa, almeno così credeva Luciano. A guerra finita, dopo la prigionia a Forlì, era tornato in Germania, con l’intendo di continuare gli studi. Diventò medico, praticando poi la professione sino alla pensione.Non aveva mai abbandonato la fotografia, un credo antico che coltivava sin da ragazzo; portato avanti anche durante il conflitto mondiale. Era un Caporale fotografo, attivo soprattutto lungo la Linea Gotica, quando il fronte si fermò appena giù dall’Appennino Tosco – Emiliano, verso Bologna.Oggi Luciano lo immaginava seduto alla sua scrivania enorme, illuminata da una grande lampada, con sopra gli oggetti di sempre, ordinati dall’abitudine. Della vecchia fotocamera, sempre a portata di mano, il medico riconobbe l’odore della custodia, che a lui piaceva molto. Lo respirava a lungo anche al fronte, durante la guerra, quando la paura saliva in gola e paralizzava le gambe. Per lui quello strumento profumato rappresentava un privilegio; con esso poteva guardare, capire, conoscere, far proprio il tempo.Günter poggiò la nuca allo schienale e chiuse gli occhi.“Che fai?”, chiese Costanza, la moglie, entrata all’improvviso. “Meravigliandosi. Dormi?”.“No”, rispose lui, “Ricordo la mia giovinezza, in Italia, sull’Appennino”.
Günter amava quell’angolo d’Appennino, lo aveva apprezzato da subito, appena arrivato. Nonostante operasse in prima linea, viveva da solo, in una stanzetta ricavata dentro una collina. Lì poteva sviluppare i negativi e anche stamparli a contatto, ma all’esterno, alla luce del sole, con un piccolo torchio.Quando poteva affacciarsi, riconosceva una sorta di magia, soprattutto quando la guerra concedeva una pausa. Erano albe, tramonti, con anche quella luce limpida, trasparente, a incorniciare l’orizzonte.Fotografava per l’esercito tedesco, il che non era un limite; anche se un giorno iniziò a osservare la realtà in maniera differente. I gerarchi volevano essere ritratti all’opera, così come pretendevano fotografasse solo scene di battaglia: istanti prevedibili, omologati, consueti; ma c’era dell’altro, e lui avrebbe voluto esplorarlo. Secondo il suo vedere, non esisteva un attimo più importante di un altro e la spontaneità poteva risultare più ingannevole di una fotografia costruita.
Iniziò così a chiedere delle pose, a seconda dei personaggi che aveva di fronte: un ufficiale, un soldato, il contadino a cui era stata espropriata la casa. Man mano che procedeva nel suo lavoro, ne veniva fuori un racconto, quasi un’eredità da lasciare a figli e nipoti: uno sguardo allungato.Un giorno, sullo slancio dei risultati, decise di ritrarre la “non guerra”, immagini che avrebbero significato ancora di più l’evento bellico che stavano vivendo. La pace rappresentava il contrario della battaglia ed era giusto documentarla. Ne venne fuori il paesaggio: quella luce che abbagliava le mattine e dipingeva i crinali, le case, gli alberi.Si era spinto anche in paese, dove alle volte si viveva una normalità precaria, che comunque voleva dire guerra, paura, ansia, instabilità. Lì aveva conosciuto Angela, una ragazza del luogo. Per via della lingua, tra loro non potevano parlare; ma l’orgoglio dei vent’anni fece il resto. Fu lei a chiedergli una fotografia, e lo fece con pochi gesti: le mani tra i capelli, lo sguardo accattivante e quella gonna fatta salire con malizia sopra il ginocchio.Günter capì. L’istante, l’argomento, l’inquadratura, spesso non bastano: occorre qualcuno che chieda la fotografia, anche solo per vanità; mettendosi a disposizione.
Luciano osservava le fotografie con attenzione. Le aveva disposte l’una di fianco all’altra, seguendo un gusto personale. Ne era venuta fuori una storia, che si poteva quasi raccontare a parole. Solo due immagini rimanevano fuori dal gruppo: una ragazza con la gonna sopra alle ginocchia e un gruppo di americani. Continuò a pensare.Arrivò il giorno di Natale. Günter lo capì dal passaparola tra commilitoni. Non riceveva missive e si sentiva solo. Il freddo tagliava la pelle e per sentire il profumo della sua fotocamera era costretto ad appoggiare la custodia al naso.Si affacciò dalla sua postazione. L’aria era limpida, il silenzio assoluto. Durante la notte una leggera nevicata aveva imbiancato il paesaggio. Scattò qualche fotografia, per la sua “non guerra”; ma non si sentiva soddisfatto. Rimise i guanti. Il cielo era azzurro e un leggero vento sollevava dei cristalli di ghiaccio. Mancava un altro istante alla sua visione, quello degli altri. Anche loro combattevano, con le sue stesse ambizioni: sopravvivere e poter raccontare.Uscì dalla trincea con passo deciso. Dei commilitoni gli urlarono di fermarsi, ma lui continuò a camminare: voleva vederlo, il nemico; fotografarlo, raccontarlo. Su quei monti, tutti stavano scrivendo una storia: tedeschi, americani, persino Angela, che lo guardava sempre con gli occhi dolci.Günter non vedeva nulla davanti a sé. Solo in fondo si distingueva una siepe: il resto era bianco, luminoso. Allargò le braccia, con il cuore che gli batteva in gola. Dalla mano destra pendeva la fotocamera, che adesso lui reggeva per la tracolla. Immaginò un colpo, che non arrivò; finché sentì parlare diverso. Allora si fermò. Dalla siepe uscì un soldato, che lo teneva sotto tiro; poi un altro, con un fucile puntato. Lui con la mano sinistra indicò la fotocamera, mentre i due americani si guardavano.“Fröhliche Weihnachten”, disse Günter, col timore di non essere compreso.“Merry Christmas”, fu la risposta.Lentamente cercò di spiegare che voleva una foto ricordo, mimando le pose che desiderava. I due nemici si guardarono ancora, finché uno non lo imitò.“Ok”, urlò Günter entusiasta, poi iniziò a scattare. Quello fu il momento più intenso di tutta la sua guerra, sicuramente l’istante decisivo.
“Non farti ingannare!”“Cosa?” chiese Luciano.“I due americani erano prigionieri, Günter non era andato a cercarli”.La voce di Frank risuonò nel silenzio del negozio. Chissà per quale ragione era tornato indietro.“Se me lo dici, è perché anche tu ci hai pensato”.“Già”.L’amico sparì nuovamente, senza dire una parola; con la stessa agilità di prima. Luciano pose la fotografia dei soldati USA di fianco alle altre: la storia era completa. Rimaneva solo Angela.
Günter aprì gli occhi. Costanza stava guardando le fotografie che aveva sul tavolo.“Chi è questa ragazza?”. “Un’italiana?”, chiese la moglie.“Si chiamava Angela”, rispose. “Viveva a Vergato”.“Era molto bella, ti mostra le gambe”, ribadì lei.“Un gesto malizioso e nulla più”.“Sì, ma anche consapevole!”.“Era giovane, tutto qui”, disse Günter.Costanza guardò il marito in silenzio, con fare sospetto. Lui si alzò dalla poltrona ed entrambi uscirono dalla stanza.
Le fotografie rimasero sparse sulla scrivania, assieme alla fotocamera “profumata”. Si vedevano soldati, battaglie, paesaggi, nevicate e in una sola si scorgeva Angela. Per Natale le aveva regalato tutti gli scatti che la riguardavano, compreso quello nella quale mostrava le gambe. Luciano Marchi
|