Luciano Marchi – Caro amico ti scrivo… Riflessioni di un fotografo
2021/04/18, Porretta – NEWSLETTER DEL 18/04/2021 |
CARO AMICO TI SCRIVO …Riflessioni di un fotografo Caro amico ti scrivo. Le fotografie sono sul bancone: le guardo. Quanti volti ho ritratto, quante storie si sono dipanate davanti a me!A volte ne sento il peso, più spesso la fame, il desiderio. Sì, c’è in me una necessità compulsiva, come se il soggetto mi stesse aspettando di continuo: qui, là, altrove, sui monti.Mosè è appena andato via, con tutto il disordine che si trascina dietro. Lui è sempre in affanno e risolve tutto con quella sigaretta che fuma con avidità, nascondendo il senso di colpa. Sarebbe stato bello parlarne con lui, perché forse mi avrebbe capito: io voglio fotografare, debbo farlo; spesso: ogni giorno. Caro amico, perché tutto questo? Che sia l’età? Il peso del tempo? O forse è colpa della pandemia? Delle zone che cambiano colore? No, non credo: c’è dell’altro, ci deve essere.Appoggio il libro di Giovanni Gastel a fianco delle fotografie. Lo apro: prima a metà, poi sfogliandolo da principio. Ci sono ritratti, tanti: incredibili perché paiono illuminarsi da soli. E allora, ecco venire a galla il miracolo dello scatto: c’è un tempo per il click (poco, a dire il vero), ma un altro per riflettere, pensare, comprendere. Forse è a quello che non riesco a rinunciare, all’idea di scegliere quel momento, dopo averlo aspettato, forse anche creato. Giovanni GastelCaro amico, dove sei? Stai pensando anche tu all’immagine di domani? A chi o cosa avrai di fronte? Già, perché il fotografo ha bisogno d’altro: di quel soggetto che troverà di fronte a sé, cosa o persona che sia.Un pittore può creare un vaso di fiori senza averlo di fronte, uno scrittore può parlarne attingendo dalla memoria, chi scatta lo deve avere davanti agli occhi: per riprodurlo fedelmente o anche alterarlo secondo uno stile, ma di certo non può farne senza.Caro amico, è così? Già, perché allora il fotografare, almeno il mio modo, diventa un gioco a due, un modo per rapportarsi col mondo, con gli altri; ma anche col tempo e le stagioni, gli anni e l’età. Quant’è difficile, però. Tutto pare risolversi con quel pulsante da sfiorare, e invece no. Il destino del fotografo è quello di produrre un’immagine che parla già di passato, con una valenza (responsabile) votata al futuro.Tra l’altro, non può neanche erigersi a profeta, o creatore, perché la sua interpretazione si pone solo come un filtro tra sé e il suo soggetto, tra quello che vede e quanto sta provando.Caro amico, questa volta ti scrivo veramente. Lo faccio spesso divagando su temi variegati, ma questa volta voglio parlarti di me: perché senza conoscermi, non potrei fotografare. Così ti chiedo: “Chi sono io?”. “Mi riconosci in quello che fotografo?”. No, non dirmi se i miei scatti sono belli o brutti, riusciti o meno: “C’è, in quello che vedi, un po’ di me stesso?”. “Un mio ritratto?” . Sfoglio ancora il libro di Gastel. Molti soggetti guardano in camera, solo alcuni volgono gli occhi altrove. Da ogni pagina, però, emerge un amore reciproco, una complicità. Tutte le fotografie dimostrano un “gioco a due”, dove il click diventa superfluo, irrilevante. L’istante?No, non ce ne è uno decisivo, ma tanti: uno dietro l’altro. Non me ne vogliano i puristi, ma alle volte, soprattutto di fronte ai miei paesaggi, quasi preferisco non scattare, o addirittura indugiare. Sento che così aumenta la tensione emotiva, l’emozione, il senso di qualcosa che sta per avvenire: di magico, misterioso. Caro amico ti scrivo, e lo farò più spesso. Sento che devo raccontarmi, confrontarmi, forse perché è lì il senso dello scatto. Continuo a consolarmi con le foto tessera: momenti cruciali, irripetibili, regali ricevuti di continuo. Già, perché quei quadratini di carta non dovranno essere simili ai soggetti, ma quest’ultimi a loro. Ironia della sorte: l’identità passa da lì; e la persona ritratta è meno importante della sua fotografia, almeno per quello che appare di fronte a un gendarme di frontiera. Caro amico, scherzavo; perché anche la fototessera è un gioco a due. Chi si siede sullo sgabello del mio studio vuole essere ritratto; ed io lo faccio volentieri, tutte le volte con uno spirito rinnovato. No, non sto rubando l’anima e nemmeno provo un senso autoritario; sento viceversa che in due stiamo creando una “reliquia” del tempo, un oggetto indispensabile e voluto, uno strumento di relazione. Chiudo il libro di Giovanni, con delicatezza. Avrebbe dovuto raggiungerci a Porretta anche quest’anno, ma non sarà così. Lui aveva capito la fotografia e forse avrebbe compreso anche la mia lettera. Senza falsa retorica, ci ha mostrato come di continuo fosse alla ricerca di se stesso; e forse per questo ha chiuso tanti cerchi nella sua vita, con equilibrio e onestà. La classe che gli veniva attribuita non era un vestito indossato alla bisogna, ma una maniera di essere, come la sua fotografia del resto. Ecco, sì caro amico: te lo dico per lettera. La fotografia è comportamento, modo di vivere, atteggiamento, maniera di porsi, via di conoscenza e riflessione. Praticarne la disciplina vuol dire come minimo essere educati e nutrire rispetto. Perché ci stano aspettando, in tanti: quei soggetti senza i quali non sarebbe possibile fare click; e di loro ne ho un continuo bisogno. Caro amico, rispondimi. Luciano Marchi |