Rita Ciampichetti – Quando lo zucchero si comprava a etti

2022/11/05, Vergato – Un racconto breve di Rita Ciampichetti. Ancora una volta attenta a seguire i cambiamenti a volte irrevocabili di usi e costumi di una società che è in continuo “aggiornamento”…

Quando lo zucchero si comprava a etti.

Oggi, gironzolando con il carrello tra i banchi del Conad, mi sono detta: “Pensa te la faccia che farebbe la nonna Maria se fosse qui con me a fare la spesa!”

La mia nonna paterna, classe 1887, è morta nei primi anni del dopoguerra e quindi non ha vissuto i tempi del boom economico e nemmeno quelli recenti all’insegna del consumismo a cui abbiamo fatto ormai l’abitudine.

Sarebbe rimasta allibita di fronte al freezer dei surgelati e penso senza parole nel vedere le confezioni monoporzioni di cibi già preparati per la consumazione, per non parlare delle buste con le insalate già pronte.

Negli anni in cui ha vissuto lei, tra le due guerre, era completamente diverso il modo di fare la spesa in quanto, essendo la sua una famiglia di agricoltori, si acquistavano solamente prodotti essenziali che non venivano autoprodotti: zucchero, sale, pepe, candele, fiammiferi. Per il proprio fabbisogno alimentare si raccoglievano i prodotti offerti dai boschi e dai prati, si coltivavano i campi e gli orti e si allevavano gli animali e il cibo necessario per vivere era semplice, raccolto, lavorato, conservato  e cucinato dalle donne di casa.

L’agricoltura era più diffusa di oggi quindi in molti possedevano le mucche per la produzione del latte e del formaggio, le galline che scodellavano le uova fresche, il maiale, tesoro prezioso, utilizzato fino all’ultimo grammo del suo peso che veniva lavorato sapientemente per la produzione di prosciutti, salsicce, salami, cotechini, pancette, lardo, strutto che avrebbero arricchito la dispensa per l’inverno,  non si buttava via nulla del povero ninein, neppure il sangue e le setole.

Per chi non era in queste condizioni di auto produzione il procacciamento del cibo era andare a fare la spesa alla bottega del paese.

Prima dell’avvento dei supermercati, grandi contenitori di tutti i generi di merce, i nostri paesi erano caratterizzati dalle botteghe, quei piccoli microcosmi stipati con ordine fino all’inverosimile di mercanzie varie, traboccanti di odori, sapori e profumi più o meno graditi che venivano di solito gestiti a livello famigliare.

Voi ragazzi che girate per Vergato e passate davanti a tante saracinesche chiuse o a negozi vuoti e polverosi con il cartello “Affittasi”, provate ad immaginarvi come doveva essere il paese con tutte le botteghe aperte: drogherie, fruttivendoli, forni, macellai, parlo al plurale perché ce n’erano diversi anche per lo stesso tipo di merce e si vede che tutti guadagnavano sufficientemente per avere garantita la sopravvivenza.

Come era fare la spesa negli anni sessanta del secolo scorso?

Adesso solitamente si tende a concentrare nel fine settimana l’acquisto dei prodotti e delle vettovaglie necessarie per tutti i restanti giorni, si compilano liste della spesa lunghissime per non scordare nulla, giriamo come forsennati i corridoi degli ipermercati con carrelli strapieni di prodotti freschi e surgelati che a casa troveranno la loro collocazione nella dispensa, in capienti frigoriferi o nei congelatori. Il lungo periodo di lockdown ha poi abituato molti di noi ad ordinare la spesa su internet e a farsela portare a casa, vedi mia figlia Laura.

A quei tempi direi che era impensabile.

Mia mamma la spesa la faceva tutti i giorni, alla mattina e, badate bene,  non in un unico posto: andava in drogheria, in latteria, al forno, dal macellaio, dal fruttivendolo, un giro in giro per il paese a fare gli acquisti di quello che serviva che occupava gran parte della mattina. Direte voi giovani lettori: “Ma chissà quanta roba da portare a casa!”. La quantità in realtà era molto modesta, perché si acquistava giusto giusto il fabbisogno per quella giornata, massimo per due: il pane e il latte fresco tutti i giorni,  la carne da brodo per la domenica, l’etto di mortadella, un po’ di  frutta e molti generi addirittura a peso secondo il proprio fabbisogno come zucchero, caffè, farina, addirittura conserva. I frigoriferi non erano ancora così diffusi, tanto meno i congelatori.

Ogni bottega aveva il suo giro di clientela affezionata e il negozio, in attesa del proprio turno per essere servite, diventava un luogo di chiacchere con vicine, amiche e conoscenti, un momento imperdibile di aggiornamento sulle ultime novità e pettegolezzi del paese.

Intanto che si chiacchierava il bottegaio, con addosso un grembiule bianco o nero e un lapis per i conti appoggiato sull’orecchio,  continuava imperterrito a svolgere il suo lavoro affettando, pesando, incartocciando fino alla domanda finale: “Le serve altro Signora” e la cliente rispondeva “Altro..”, che è una espressione tipica bolognese, la usiamo solo noi che, a dispetto dell’italico significato, esprime invece in tale occasione il concetto di  “basta”.  

Il negoziante prendeva poi il lapis dall’orecchio e sopra un blocchettino di fogli solitamente con il marchio di qualche prodotto, iniziava a fare rigorosamente a mano la somma di tutti i singoli costi e l’importo finale dovuto, con una velocità incredibile, senza  calcolatrice, controllato ovviamente dalla massaia che in quanto a capacità di calcolo a mente non era certo seconda a nessuno.

Arrivata a casa disfare le borsa della spesa era un affare di un attimo, gli imballaggi erano veramente ridotti al minimo ed il più delle volte si conservavano per un ulteriore uso come la carta gialla della macelleria ideale per assorbire l’unto in eccesso dei fritti o bagnata per ridurre il gonfiore degli eventuali “bernoccoli” da caduta.

Non so se avete notato, ma ho sempre parlato al femminile, infatti gli uomini che a quei tempi facevano la spesa erano proprio pochi, era una competenza riservata alle donne e sono sicura che tale incombenza non sarebbe stata ceduta poi così volentieri alla componente maschile della famiglia, giusto qualche volta se si era dimenticato qualcosa, ma la spesa vera e propria no.  Era la mamma casalinga che solitamente gestiva l’economia domestica e teneva sotto controllo quanto si stava spendendo giornalmente, con attenzione a quanti giorni mancavano alla fine del mese quando finalmente sarebbe entrato in cassa  lo stipendio.

Mia mamma mi ha sempre raccontato che quando era piccola dove viveva era abbastanza diffusa l’usanza di andare a fare la spesa con il libretto.

Nella bassa ferrarese dove la maggior parte delle famiglie era impiegata nel bracciantato agricolo, spesso si veniva pagati a raccolto avvenuto e quindi fare la spesa a credito con il libretto era un metodo di pagamento posticipato che ovviava il problema di mancanza di denaro. Il saldo del conto veniva liquidato al momento in cui si veniva pagati per il lavoro svolto.

Il libretto era in pratica un credito che i negozianti concedevano ai clienti conosciuti personalmente di cui si fidavano, erano di solito due e il conto della spesa del giorno veniva segnato sia sul libretto che rimaneva al cliente sia su quello di controllo conservato in bottega.

La mamma raccontava che spesso sorgevano discussioni sugli importi annotati sui libretti perché qualcuno poco onestamente li modificava o cancellava, però succedeva anche che se il negoziante di fiducia sapeva che la famiglia era in particolare difficoltà o perché si era ammalato il capofamiglia o aveva perso il lavoro, veniva chiuso un occhio concedendo più tempo per il pagamento.

Ogni tanto la mamma mi ci mandava a fare la spesa, alla bottega di Canarini Quintilio che si trovava all’inizio di Via Minghetti, solitamente non mi dava i soldi, mi diceva “Prendimi due etti di zucchero, un etto di stracchino e uno di caffè Dì a Quintilio o alla Berta che segni il conto, passo poi io domani mattina a pagare”, prendevo la sporta a rete e volavo giù per le scale, contenta per la missione ricevuta. Adoravo andare alla bottega di Canarini, mi piacevano moltissimo gli odori che vi si respiravano, quello sprigionato dalla mortadella quando veniva affettata che ti faceva venire fame, l’aroma del caffe macinato fresco e quando c’era quello pungente esalato dal baccalà salato messo a bagno nella bacinella. Quintilio e sua moglie Berta erano sempre gentilissimi ed io rimanevo rapita a guardare le mani di Quintilio che apriva un grosso sacco appoggiato per terra, affondava dentro una paletta di metallo concava poi andava dietro al banco, metteva sulla bilancia una carta di color azzurro e faceva cadere piano, piano lo zucchero guardando il peso e poi, come un prestigiatore, prendeva tra il pollice e l’indice delle mani i lembi della carta e velocemente con abilità piegava la carta e faceva un cartoccio a prova di apertura accidentale.

Oltre ad osservare Quintilio mi incantavo a guardare sulle mensole dietro al banco grandi vasi bombati di vetro con il coperchio di alluminio contenenti dolciumi e quei mattoni di cioccolata bianca e nera o con le noccioline tritate avvolte in stagnola color oro che venivano venduti a fette. Che voglia che mi facevano! Qualche rara volta la mamma me ne comprava una fettina per la merenda.

Le botteghe di generi alimentari allora erano veramente tante… a memoria ricordo almeno quattro drogherie, quattro fruttivendoli, cinque macellerie, tre latterie, ovviamente concentrate tutte nella zona vecchia del paese, perché in destra Vergatello non esisteva nulla, solo il macello comunale.

Alla mattina poi, prima di andare a scuola si passava nelle drogherie del paese a prendere la merenda costituita di solito da un panino che non riusciva mai ad arrivare integro all’orario dell’intervallo.

Veramente speciali erano quelli confezionati dalla premiata drogheria Fratelli Marchi, allora ubicata in Piazza dei Capitani in particolare la crescentina con la Nutella e il mascarpone o il panino con il tonno e le cipolline perline sott’olio, oppure dalla drogheria Brascaglia quello con la mortadella ed una buonissima salsina di verdurine fatta da loro, mai più dimenticata.

Chi poi non ricorda, sempre andando a scuola alla mattina, la Maria Sammartino con in mano il piumino che spolverava le mele esposte fuori dal negozio gestito con il marito Achille Bottazzi?

… e le battute del fruttivendolo Dante Fabbri, il babbo di Mela, che facevano sorridere le clienti e fare scossare la testa a sua moglie Vittoria?

… il bellissimo sorriso della Peppina, bella lattaia, solare che metteva il buonumore appena entravi nel suo negozio?

….l’antica bottega di Bernardi, successivamente in parte dedicata al confezionamento di eleganti bomboniere da parte delle abili mani della Signora Luisa.

Poi c’erano le macellerie: Fabio Gardenghi, Gasperi, Zaifo, Martinelli, Nanni con le mezzene di bovino appena macellate appese a grossi ganci, purtroppo l’odore delle macellerie era l’unico odore di bottega che non mi piaceva.

I due forni, Lanzarini e Marchi con le loro specialità, per cui spesso, in prossimità delle feste natalizie si sentivano discussioni sulle preferenze delle due crescente dall’uva prodotte rispettivamente dai forni.

Rivedo i loro volti, sempre indaffarati, amanti della loro professione che svolgevano con amore al servizio dei paesani.

L’ultima bottega, quella di “Battaglia” sotto al portico davanti all’ex bar Gatti ha resistito fino a qualche anno fa, poi si è arresa all’invitabile e ha chiuso le serrande.

Oggi fare la spesa al supermercato è qualcosa di assolutamente individuale, personalmente quelli molto grandi mi creano confusione e quando mi trovo davanti ad una pluralità di marche dello stesso prodotto non riesco mai a decidere cosa acquistare, inoltre quasi sempre divento facile preda delle celate insidie del marketing strategico per cui entro per comprare solo due o tre generi ed esco con il carrello pieno di tutt’altra merce e con il conto raddoppiato rispetto al previsto.

Quello degli ipermercati è un ambiente asettico e un po’ freddo  che mi fa rimpiangere le sensazioni e le emozioni date da quelle piccole botteghe di una volta che purtroppo non riapriranno più, ma dove si andava tanto volentieri a fare la spesa quotidiana contribuendo in questo modo a salvaguardare l’economia locale del proprio paese.

Rita Ciampichetti, 2022

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