La caparèla.. per la serie indumenti in disuso – Rita Ciampichetti racconta
2025/12/26, Vergato – I viaggi nella memori di Rita Ciampichetti ci portano a un’indumento a tema con la prima neve che sormonta le nostre cime:
– La caparèla.. per la serie indumenti in disuso
Me la ricordavo ed ero certa che in qualche cassetto degli antichi armadi di famiglia doveva ancora esserci per le seguenti incontrovertibili ragioni.

I miei suoceri non buttavano via nulla, finché c’era spazio non c’era problema, la sottoscritta, come più volte fatto presente, è una inguaribile “nidarola” e quindi ho proseguito negli anni la tradizione di famiglia, l’avevo vista decenni fa e mi sono detta che bastava avere un po’ di tempo per cercarla.
Apri cassetti, solleva coperchi di vecchi bauli, rimescola fra biancheria ormai ingiallita fino a quando oggi pomeriggio è saltata fuori, ripiegata sotto la pila delle pedane bordeaux che mia suocera Rosita usava appendere alle finestre tutte le volte che passava la processione, un tempo succedeva più spesso.
Ecco riemergere direi molto spiegazzata dal tempo la vecchia “caparèla” del nonno materno di mio marito, Giuseppe Colombarini, nato a Casigno di Castel d’Aiano il 19/12/1875, figlio di Ubaldo (1829-1912), figlio di Angelo (1784-1878), figlio di Marco (?-?).
Già vedo l’espressione stupita di chi legge… ebbene lo confesso, ho passato tutta l’estate a cercare di ricostruire con molta pazienza gli alberi genealogici di famiglia, passando intere serata a leggere e decifrare antiche scritture, ma questo è un altro interessante argomento e torniamo alla “caparèla.
Felice per il ritrovamento l’ho spiegata in tutta la sua ampiezza, sbattuta e appesa ad una croce per fare le foto, è semplicemente affascinante la sua semplicità, un grande panno di lana che doveva avvolgere chi la portava in una abbraccio caldo proteggendolo così dal freddo e dall’umidità invernale.
La “caparèla”, prima di essere dimenticata, è stata penso fin dai tempi più antichi il mantello dell’Italia contadina e lavoratrice, era indossata sopra la giacca e il panciotto, con una mano veniva chiusa sul petto e un lembo, con un movimento deciso, veniva lanciato sulla spalla, lasciandolo cadere dietro la schiena in un elegante drappeggio.
Il tessuto solitamente era di lana pesante, a volte infeltrita per renderla impermeabile alla pioggia, il colore sempre scuro: nero, marrone, grigio fumo perché erano tinture che costavano meno, il collo si poteva alzare per proteggere le orecchie nelle giornate più fredde.
La “caparèla” di Nonno Giuseppe l’ho aperta sul letto, una ruota di tessuto quasi perfetto, ho pensato che ci voleva un sarto con una certa esperienza per calcolare esattamente, secondo le misure di chi l’avrebbe portata, l’altezza per tagliarla in modo perfetto in modo che non facesse delle “code”.
Poi sicuramente doveva stare benissimo su un soggetto alto, ben proporzionato, dalle spalle larghe, magro come doveva esserlo il babbo della Rosita, che io non ho mai conosciuto da giovane, ma che mi è stato descritto come un uomo veramente bello.
“Dai Attilio prova ad indossarla!” ho chiesto a mio marito, “Moché, moché, an ié dóbbi! ” e ho iniziato a inseguirlo per casa con in mano il mantello fino a quando con un “Sòcc’mel te paisa cumpagna na masagna” me lo ha tolto di mano e l’ha indossato, essendo così sgualcito non è che rendesse molto l’idea di eleganza.
Ho chiuso gli occhi e mi sono immaginata le strade di Vergato nei primi decenni del secolo scorso in giornate invernali simili ad oggi quando nelle mattinate brumose intravedevi queste figure mantellate muoversi ondeggiando nella nebbia e allora mi è tornato in mente un personaggio tipico che abitualmente d’inverno indossava la “caparèla”.
Chi si ricorda Ferruccio Dalloca? Tutti i lunedì scendeva, rigorosamente a piedi, da Prunarolo per venire al mercato settimanale di Vergato e per portare a pochi e scelti clienti la carne dei maiali che macellava.






Lo rivedo d’inverno entrare nella nostra cucina e tirare fuori da una usata sporta nascosta sotto la sua “caparèla” un involto di carta gialla con dentro il pezzo di lombo di maiale ordinato dalla Rosita: “Quast’qué lé un pèz ‘d chèren dimóndi spezièl…. såura al scartoz ajò scrett “REGISTRO”, questa annotazione non la capivo, fino a quando la Rosita mi spiegò che una volta a Vergato c’era l’Ufficio del Registro e per l’atavico rispetto misto a timore che le persone semplici sentivano nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni, probabilmente il buon Ferruccio destinava i tagli di carne migliori ai clienti dipendenti di quell’ufficio e per non sbagliare li distingueva dagli altri con quell’annotazione. Io invece sono convinta, memore del proverbio “Contadino scarpe grosse e cervello fino” che scrivesse “Registro” su tutte le confezioni in modo che ogni singolo cliente si sentisse un privilegiato.
La “caparèla” era portata anche da persone ricche, probabilmente realizzata da sarti di moda con il panno di lana più prezioso, foderata con seta e passamanerie ricercate, con i colli di pelliccia.
E’ stato un indumento talmente diffuso che mi sono divertita a consultare i testi in dialetto bolognese che ho nella mia libreria per trovare modi di dire che riguardano la “caparèla”.
Uno è particolarmente significativo ed è “Fèr una caparèla”, modo di dire sottovoce quando per “farla pagare” a qualcuno per uno sgarbo ricevuto lo si aspettava dietro all’angolo, gli si buttava addosso il mantello così non poteva vedere chi era stato e giù bastonate.
Se passiamo alla meteorologia dobbiamo citare “Dåpp i Sant tira fôra la caparèla e anc i guant”
Il nostro dialetto poi è estremamente colorito quando si tratta di evidenziare con arguzia i difetti del prossimo ed allora il commento “La caparèla la pèr atâc ala cruśîra dl armèri” si riferiva senza alcun dubbio ad un soggetto molto magro.
La caparèla, con l’evolversi della moda a seguito dell’introduzione delle confezioni industriali, ha decisamente negli anni cessato di esistere e oggi è scomparsa dalla vita quotidiana se non per essere forse indossata in occasione di qualche rievocazione storica in costume o sfilate di Carnevale.
Dal freddo ormai ci proteggono leggeri e caldi piumini e tessuti tecnologici ad alta protezione termica e nessuno si sogna più di indossare quell’unico grande panno di lana, di raccogliere nella mano la parte destra del mantello e di buttarla sulla spalla con quell’ormai dimenticato elegante movimento rotatorio e di uscire ad affrontare il Generale Inverno.
Rita Ciampichetti, 2025