Luciano Marchi – Nwl nr. 32 Fotografia a Campeda

NEWSLETTER DEL 09/07/2014
FOTOGRAFIA A CAMPEDA La fotografia abiterà a Campeda, per una sera.
L’appuntamento è fissato per Domenica 27 Luglio alle 21.
In paese proietteremo “I Luoghi dell’Appenino”.
Naturalmente ci saranno crescentine per tutti e momenti d’allegria; però sarà bello viaggiare insieme, riconoscendo una volta di più i nostri posti e le nostre genti.

Mi sono recato a Campeda più volte, anche d’inverno; ne ho ritratto pure una processione che non si teneva da tempo.
Oggi quel paese è maggiormente vicino, conservando più di altri la coerenza del tempo, la forza che viene da lontano.
Parliamo di Emilia o Toscana?
Non ha importanza, come mai l’ha avuta.
L’Appennino è un po’ come il mare: sotto costa diventa nazione; al largo è di tutti, almeno di coloro che hanno voglia e coraggio per tracciare una rotta,
segnando una via.

Sono i nostri monti a recitare storie per noi, i paesaggi, le circostanze, le tradizioni. Li vivremo assieme.
Sabato sera.

 

Vi aspettiamo

 

Come premessa alla proiezione, un piccolo racconto di un amico; che poi è un’esperienza di vita.

 

Luciano Marchi

 

 

 

 

 

 

 

CAMPEDA, TRA RICORDO E PRESENTE

 

E’ sempre stata una passeggiata estiva, magari da ripetere più volte.
Con mio nonno, che si chiamava come me, andavo alla Madonna di Don Enrico, magari la mattina: “Col fresco”, diceva lui.
Si usciva da Borgo Capanne verso la “ruina”, poi ci s’inerpicava in l’alto: con il Monte della Croce, sopra; e “rasedli”, sotto (zona famosa per le lazze, così dicevano).
Arrivati al Santuario, la visuale si apriva, con la Pieve in basso e la valle del Reno che sembrava fuggire verso ovest.
Di fronte, il monte delle “Casette”, con, sulla dorsale, due piccoli paesi. In basso la ferrovia.

Una è Campeda Vecchia, l’altra è Campeda Nuova”, così diceva mio nonno, tutti gli anni. Per me, bambino, rappresentavano solo il traguardo dell’avventura, per lui molto di più: i due paesi erano gli amici mai visti, quelli di là, la parte della vita che il destino ti costringe solo a guardare, non a conoscere.


Venuto a mancare il nonno, fu sua moglie ad accompagnarmi da Don Enrico, almeno per quel poco tempo che riuscì a rimanere con noi.
Lei aveva il passo agile e nei boschi era di casa.
Arrivati alla cappellina, si metteva a pregare, guardando la Pieve.
In mano teneva il crocefisso che portava al collo e si voltava giù, verso il camposanto.

 

Non ti sei ancora segnato?”, mi rimproverava; poi continuava con le sue “rechie”, rigorosamente in latino.
Di fronte al Monte delle Casette, quasi si commoveva, dicendo:

 

Morirò senza aver visto quelle case”; e fu realmente così.

 

La Madonna di Don Enrico rimase dimenticata per un po’. Non c’erano più i nonni a premiare le promozioni scolastiche. E poi, si sa: la vita cambia e, con essa, le ambizioni, i desideri, le visuali per il futuro.


Ricordo che tornai là molto tempo dopo, col primo amore: quello al quale vuoi dire tutto. Lei venne, tenendomi per mano. Io cercai di spiegarle ogni cosa, anche il piacere che si prova nel camminare sul muschio.
Gli stimoli però erano altri, e abitavano negli occhi e nella pelle; così ci fu poco da raccontare, almeno fino alla Madonna.

 

Sono abitati quei due paesi?”, mi chiese …

 

Perché ponevano tutti la stessa domanda? Certo che sì, oppure … forse no. Chissà?

 

Ci sei mai andato?”, domandò ancora.

 

No”, risposi; e anche con un po’ di vergogna; ma capii che non era una questione di distanza e neppure di possibilità.
Quelli di là erano i vicini, le persone che vivevano come te, quasi da non disturbare. Io avevo ereditato quei sentimenti dal passato, disobbedendo anche alla curiosità.
Erano i modi di vivere a far muovere i nostri vecchi, i tempi dedicati a “mondare” i castagni, a raccoglierne i frutti e seccarli, a cercare le risposte in cielo, in quella “Buga” che ci avrebbe detto se il tempo sarebbe stato bello oppure no.

 

Sono tornato da Don Enrico in solitudine.
Il sentiero cominciava a chiudersi, per via delle “ragge”; e non riconoscevo più neanche i sassi.
La cappellina l’ho trovata, malconcia; ma mi è tornato in mente tutto, persino quella preghiera che mia nonna recitava tra le labbra;
E poi, quei due paesi: belli da fare invidia, quasi da disegnare.

Mi sono seduto su un sasso, con in bocca un filo d’erba.
Anche mio nonno faceva così, poggiandosi però su un fianco.
Pensavo a me, alla mia vita; ma anche al divenire, a un’esistenza diventata vicina, stretta; a un mondo ormai piccolo e congesto, quello di pochi e non di tutti.
Davanti a me, Campeda, i vicini, quelli di là.
C’era tanto coraggio, in quello che vedevo; e anche amore.
Sarebbe bello intuirne il significato profondo, perché i due abitati non sono solo ricordo, bensì anche un presente, realtà che potrebbe vivere, persino risposta per il futuro.
Dobbiamo ingrandire il mondo, per stare meglio, ripopolando le Campede della terra; come facevano i nostri vicini, quelli di là.

 

Ho fotografato le due Campede per un libro.
Le hanno viste in tanti.
Ho saputo che Luciano ne ha ritratto le processioni e  anche le genti.
Lo ringrazio, per questo.
Non sono solo io a farlo, ma anche i nonni e persino il primo amore, che lassù, di fronte ai paesi, mi ha regalato quel profumo della felicità che non dimenticherò mai.

 

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