Le Chiese del dott. Luigi Ruggeri – San Lorenzo di Castelnuovo, crollata e ricostruita
2014/11/23, Vergato – Castelnuovo – Una chiesa con una sorte diversa dalla precedenti; Montecavaloro (Le Chiese del dott. Luigi Ruggeri – San Giorgio di Monte Cavalloro; abbandonata!) e Carviano (Le Chiese del dott. Luigi Ruggeri – Santa Margherita di Carviano, crollata!). Distrutta per eventi bellici nella seconda guerra mondiale, la chiesa di Castelnuovo è stata ricostruita. In questa prima parte però ci occupiamo della storia antica di Castelnuovo e della vecchia chiesa anche se il dott. Luigi Ruggeri ci da poche informazioni ma sufficienti per inserirla nel contesto storico di un’angolo delle nostre terre.
Un ringraziamento ad Alessandra Baiesi per le foto della Chiesa attuale e a Vanda Nanni Benassi per le foto del dopoguerra con Don Pasi, don Anselmo Cavazza, Don Luigi Carraro, don Gaetano Tanaglia, don Nuvoli… grazie a chi ci sta inviando altre foto o cartoline che troveranno posto nella seconda parte.
San Lorenzo di Castelnovo
Chi esce dal castello di Vergato per recarsi alle terme Porrettane, dopo corse due miglia sulla nuova strada di Toscana s’affaccia a mano destra una chiesetta con alcune case e torri, che chiamasi Castelnovo. Stà sulla cima di un colle, ultimo ondeggiamento del terreno, che via via digradando dopo le altissime vette degli Apennini, qui viene a perdersi nella valle di Reno. Di lassù spazia lo sguardo sopra le feconde campagne del Modenese, da cui sorgono tratto tratto casali, terre, e borgate: dall’altra parte vagheggia un cerchio di colline, poi di superbe montagne, che a mattino e a tramontana limitano l’orizzonte, varie di forma, di altezza, di tinte; alcune verdeggianti e coltivate a frumento, altre non vestite che di boscaglie, altre infine spogliate, e squallide siccome la vecchiaia dell’uomo che male trascorse la sua gioventù.
Sebbene il suo nome suoni un paese di origine recente , e le storie bolognesi non facciano memoria di esso prima del secolo XIII, pure è da credersi uno de’ più antichi luoghi del contado, poiché fu la terra di rifugio dei discendenti di Papirio Carbone, ucciso l’anno di Roma 670; i quali tennero in appresto e per più secoli il paese a mo’ di signori e dominatori , poscia quali alleati del bolognese Reggimento. Leggesi in fatti nel Ghirardaccio che nell’anno 1243 Giberto, e Barufaldino figli del conte Carbone da Castelnovo andarano un giorno sù quel di Labante, ed ivi scontrato Azzone del Frignano, che insieme ad un suo fratello Ivano scorazzando a guisa di predoni, furono dai medesimi assaliti ed uccisi; del quale omicidio il Senato di Bologna prese terribile vendetta , dannando a morte gli uccisori stessi coi loro complici e fautori.
Era il paese in quel tempo assai vasto e popolato, circondato di mura fortissime, e fiancheggiato da torri, ed altri ripari, con rocca spaziosa ed elevata. ove tenea stanza il castellano e la gente d’armi e ciò per difenderla dai ladroni, e dai nobili fuorusciti, i quali, non provocati, irrompevan nelle altrui terre a portarvi il saccheggio, la desolazione e la strage.
Reggeva la famiglia di Carbone con isplendidezza ed amore; sicché il conte Tebaldo meritò di essere eletto nei primi anni del secolo XIV Capitano di guerra della città di Bologna: carica di tanto lustro a quel dì, che non conferivasi se non ai più valorosi e benemeriti cittadini. Egli rispose alla fama ed ai voti, che lo aveano prescelto, con atti di valore e di senno; talchè in poco tempo il suo nome divenne temuto, e riverito appo gli stessi nemici. Ciò per altro non valse a render salvo il di lui castello però che Tordino, Paganino, ed Adolfo conti da Panico (nemici e ribelli dei bolognesi) messo in ordine buon nerbo di truppe, pensarono d’impadronirsene. Castelnovo fu quindi stretto d’assedio, ed accolto in resa il 18 Settembre. E sebbene avesse potuto resistere per molti giorni, perché stato fortificato, pure dovette cedere per tradimento del castellano, che venuto alle intelligenze cogli assalitori, contro il divieto del Conte ed il volere degli abitanti inchinò ai patti, e consegnò la ròcca. I Panico, siccome aveano adoperato sugli altri, così si comportarono con que’ di Castelnovo, saccheggiandone le case , e multandoli nella cospicua somma di trecento scudi d’oro; di cui non bastando a pagare che la terza parte, furono costretti a farsi mallevadori delle rimanenti, consegnando in ostaggio tre dei loro più doviziosi, i quali nella cattività ebbero a patire incomodi gravissimi , stenti, e traversie.
Non erano però scorsi tre giorni da tal vergognoso trionfo, che inteso come le schiere dei Bolognesi movessero in aiuto del conquistato castello, lo abbandonarono i Panico tantosto, e si ripararono coi loro armati al forte di Cantaglia; ove prima di cedere , fecero prova di lunga, ed ostinata resistenza. Lasciato anche questo rifugio, corsero a trincerarsi nel castello di Stagno all’estremo confine del contado; né per le fallite conquiste perdendosi di animo, radunarono su que’ dirupi quanta più gente poterono, ed a fine di vendicarsi del Senato tentarono ogni via per rimettere in Bologna il Legato Orsini, e cacciarne i Guelfi: di che avvisati i Bolognesi, dichiararono banditi que’ facinorosi, e loro imposero grossa taglia di danaro. Ma non per questo si fermarono o si quetarono; chè passati d’un subito sul castello di Casio, ed avuto rinforzo d’armi e d’armati , Io preser d’assalto e vi commisero atrocità. Poscia tornati co’ loro militi a Castelnovo, ne intimarono la resa. Il conte Carbone invocò gli ajuti de’ confederati, ma non fu si tosto esaudito. Laonde credendosi tradito, ed abbandonato, vide con estremo cordoglio stringere d’assedio la sua terra dall’armi nemiche. Ai danni della guerra si aggiunsero ancor quelli della peste, e l’infelice Conte s’accorse che vana stava per divenire ogni difesa, per cui volendo alleviare i mali del suo popolo, chiese d’arrendersi; ma offertigli troppo ignominiosi patti, li rifiutò. Diedesi intanto un’assalto generale Mostarda da Panico capitanava l’esercito aggressore. Sali anch’egli sulle scale; ed afferrava già il fastigio delle mura, quando trovò nel conte Carbone un’ antagonista degno di se. Fiera zuffa s’appiccò fra i due capi; e Mostarda fu costretto a ritirarsi. Cessero allora gli assalitori, malconci e disanimali.
Ma consegui il tradimento ciò che non avea potuto ottenere il valore. Furonvi dei vili, che comprati apersero al nemico la porta d’una piccola torre, mercé la quale gli assalitori poterono introdurvisi, ed occupar tutto quanto il castello. Ivi non è a dirsi quale scempio facessero, e quante immanità vi commisero! . . . Per ben cento giorni tardarono i soccorsi dei Bolognesi ; e frattanto i superbi conquistatori ponevano stanza nel turrito palagio del Conte, distruggevano gli approcci, e raddoppiavano le opere di difesa, facendo di quest’alta pendice un’ immenso baluardo, e del munito castello un’inespugnabil fortezza.
La frode non portò buoni frutti. All’appressarsi del bolognese esercito, cui capitanava il prode Giuliano Malvezzi, gli abitanti straziati dal mal governo degli oppressori insorsero come un sol uomo; ed azzuffandosi cogli sgherri, e le milizie loro resero agevole ai Bolognesi il prender d’assalto la principal rócca e scalar quindi le mura per introduci nel soggiogato castello. Mostarda, Tordino, Adolfo, ed il vecchio Maghinardo, fatti inutili sforzi di valor guerriero, evasero per una secreta via col grosso della lor gente, dopo aver dato il sacco, e posto il fuoco al palazzo; e si ridussero alla pieve di Verzuno sull’ultima falda del Monte Palense, ove colle schiere dei Bolognesi, che gl’inseguivano, ingaggiarono terribile battaglia, terminata dall’eccidio, e dallo sterminio de’ banditi, e di tutti i loro seguaci.
Intanto il paese di Castelnovo era stato in gran parte distrutto dall’impeto degli assalitori, mentre il principesco palagio, cui divorava I’incendio, presentava un’informe ammasso di rovine, che i secoli adeguarono al suolo, e che non dovean risorgere mai più.
Poniamo i piedi su quel monumento della tirannide. Quante grida di dolore si saranno elevate entro a que’ recinti! Quante lagrime di spose svergognate, quante stille di sangue innocente avranno bagnato quel suolo nefando! Ma i delitti di sangue furono lavati col sangue. Arsero le fiamme quel nido di rapina, e quanto rimase illeso dall’incendio, venne distrutto dalla mano degl’infuriati oppressi, che in un giorno vendicavano le ingiurie, e I’onte di tre mesi. Ora colassù stanno quelle rovine come una pagina d’antica storia, staccata da grosso volume, che il tempo corrose. Fra gli aspri involti delle spine, ed il fesso delle fondamenta celasi il ramarro; e ne’ caldi giorni al riverbero del sole fra le tristi erbe sì avvolge la vipera intorpidita, ma guai all’incauto piede che la preme!.. E odi fra gli orrori del notturno silenzio, come da una una sua dimora prediletta, sollevare il gufo un lungo funereo lamento, stringendo di paura il cuore allo smarrito viandante , che la vetta d’opaca rupe scambia nell’aspetto di notturno minaccioso gigante.
Questa ultima cacciata dei Panico accadde sul cominciare dell’ anno 1307, dopo di che il paese si resse a comune. Ma sullo scorcio del 1360 il milanese Visconte, venuto in queste parti a danno de’Guelfi, mandò un corpo d’armati sotto le mura di Castelnovo, che cingendo d’assedio la rócca, travagliò gli abitanti con quotidiane scaramucce, seguitando un tal gioco fino al mese d’ Aprile del 1361. Il paroco intanto, i conti di Carbone (non più signori, ma semplici cittadini) e gli altri di parte guelfa, che dopo la fuga dei Panico erano tranquillamente rimasti in patria, conoscendo esser cosa per loro malagevole il resistere, si volsero a chieder aiuto dalle vicine castella, e dal bolognese Senato, e gli scrissero lettere piene di compassione, i loro mali dipingendogli, e scongiurandolo a recar loro presto soccorso, li Senato rispose all’invito; e guidando le soldatesche il Malatesla da Rimino (fiero campione de’ Guelfi) in pochi giorni il castello riprese, e demolite le mura, il restituì a libero reggimento.
Ma le mutate sorti, e le patite stragi della guerra cambiarono quel fiorito paese in una squallida e disertata campagna. Gli abitatori ne emigrarono a poco , a poco, e non restano al presente che alcune turrite abitazioni in vicinanza alla Chiesa, con alquanti casolari sparsi nel territorio. Rimane però ancor salda un’antica casa campestre con ampia torre riquadrata in luogo detto i Rovinelli, la di cui costruzione ricorda l’epoca remota del XI e XII secolo e fu questa la dimora della nobile famiglia Carbone dopo il rovescio della propria fortuna. Quivi abitò per più secoli , e quivi si spense l’ultimo suo rampollo in età decrepita, ed ignorato dal mondo. Nell’anno 1828.
Le terre di questa parrocchia, devastate dalle guerresche fazioni, erano restate incolte per luoghi anni; ma nel principio del corrente secolo s’ intrapresero con successo alcuni dissodamenti, e si fecero piantagioni di viti, e d’alberi fruttiferi. talché, la sua popolazione, trovata dal Calindri di sole 160 anime , ne conta oggi giorno 303. Dopo I’espulsione del Visconte, non rammentano le storie altro accidente politico di questo luogo. Sopravvenute pertanto le vicende Italiane del 1796, fu aggregato alla comune e giusdicenza di Vergato e ne fa parte ancora , trovandosi circondato dallo stesso Capoluogo, e dalle cure dì Susano, Labante, Casigno, Affrico, e Montecavaloro.
Diremo ora della sua chiesa parrocchiale. Il catalogo del canonico Montieri del 1366 ne fa menzione, e trovasi pure inclusa nell’elenco della Reverenda Mensa, eseguito I’ anno 1378. In quel tempo era soggetta alla pieve di Calvenzano, ed il gius patronato spettava a’ suoi parrocchiani. Poi nel 1570 passò nel plebanato di Affrico, e finalmente nel 1736 in quello di Labante, a cui soggiace ancora. Quanto al diritto di presentazione, venne questo dai parrocchiani ceduto nel 1500 alla nobile famiglia Grassi di Bologna la quale col beneplacito della S. Sede riunì la prebenda di Castelnovo all’Abbazia di S. Stefano di Latente, e dispose in perpetuo che la cura di Castelnovo fosse di libera collazione del Reverendo Abate prò-tempore.
La chiesa, dedicata a S. Lorenzo martire, ha sempre esistito sulla vetta del colle, dov’è la presente. Ignorasi il tempo della sua erezione, ma è noto che in diverse epoche subì alcune variazioni e che specialmente nel 1610, essendone paroco D. Alessandro Tonelli, fù ristretta di oltre la metà , e quasi rinnovata, aggiungendo una cappella laterale alle altre due, che vi esistevano. Nella prima metà dello scorso secolo fu edificato il campanile, sul quale si collocarono le due campane, che ancor si vedono, una delle quali fusa l’anno 1515; e sul cominciare del secolo presente si ampliò e ristanno la sagrestia.
La fabbrica è stabilita solidamente su di un gran sasso arenario, ma poiché la sua forma antica non sembrava abbastanza decorosa all’attuale Abate Don Giuseppe Tonelli, pensò egli di costruirvi il volto, e formare una nuova cappella maggiore. L’opera pietosa, cui diedero mano anche gli stessi parrocchiani, è già molto avvanzata; il disegno è bello, e lodevole ne sembra l’esecuzione, talché questa chiesa potrà vantarsi fra le più eleganti e più decorose della montagna bolognese. Essa avrà cinque altari. Co’ suoi quadri già provveduti dal medesimo Reverendo Abate, un bel coro, ed uno spazioso presbiterio e se Dio benedice questa religiosa impresa, spera l’attuale paroco D. Medardo Tozzi di potervi solennizzare le glorie del Santo patrono nel giorno 10 Agosto del venturo 1849.
Un solo oratorio incontrati nel distretto parrocchiale, ed è posto nel luogo già nominato dei Rovinelli, spettante ora al Sig. Giuseppe Romagnoli di Vergato. E’ ampio e ben conservato, e si pretende che la sua istituzione risalga all’ anno 1408, allorché i conti di Carbone, perduta ogni speranza di signorìa , quivi cercarono quel riposo e quella pace, che solo trovansi nella domestica tranquillità.
Dott. Luigi Ruggeri, da Chiese Parrocchiali della Diocesi di Bologna T.2 , nr.83. (Bologna 1849)