Don Dario Zanini è morto
2015/06/24, Sasso Marconi – Don Dario Zanini è ritornato alla casa del padre. Colpito da infarto alcuni giorni fa, è deceduto ieri.
Riportiamo da: http://notiziefabbriani.blogspot.it/
I funerali di don Dario Zanini si terranno venerdì prossimo, 26 giugno, alle 10, nella chiesa parrocchiale di Sasso Marconi e saranno officiati dal cardinale Carlo Caffarra. Alla cerimonia di commiato parteciperà tutto il clero del vicariato di Sasso Marconi.
Domani sera, giovedì 25 giugno, alle 20.30, è in programma una veglia di preghiera, sempre nella chiesa del capoluogo, cui si spera sia già presente la salma del sacerdote.
Lo abbiamo incontrato a Sperticano per le celebrazioni in ricordo dei 5 sacerdoti martiri di Monte Sole. Anche in quell’occasione rivisitò i fatti succeduti nel tragico periodo della fine della seconda guerra mondiale. A lui il merito di avere cercato di fare chiarezza su vicende ancora oggetto di ricerca storica. Molto criticato in certi ambienti ha sicuramente portato a una nuova lettura di vicende tragiche anche della nostra zona. Porta con se nomi e cognomi di persone legate a barbarie ingiustificate come le vittime di Monte Salvaro. Rimangono di lui i suoi scritti e le interviste rilasciate. Riproponiamo un’articolo e alcuni video per riconoscerne l’immagine e le parole:
In cerca della realtà storica sull’eccidio di Monte Sole
Troppa retorica su Marzabotto
di Gaetano Vallini da L’Osservatore Romano
La strage di Marzabotto – che per cominciare sarebbe più corretto chiamare eccidio di Monte Sole, vista l’area dell’Appennino bolognese in cui venne compiuta – non fu il frutto di una ferocia gratuita o dell’irresponsabilità di qualche brigata partigiana. Al pari di quella di Sant’Anna di Stazzema e di altre stragi nazifasciste fu, invece, un capitolo della guerra antipartigiana in Italia, strategicamente condotta dagli alti comandi tedeschi attraverso la formulazione di un coerente sistema di ordini teso alla devastazione del territorio e dell’habitat della guerriglia, reso possibile nella sua forma terroristica e assassina dal “di più” di violenza legittimato dall’ideologia nazista, applicato sul campo e reso militarmente operativo da molti reparti, sia della Wehrmacht che delle ss e di altre unità di élite.
È questa la tesi di fondo sostenuta nel libro Il massacro. Guerra di civili a Monte Sole (Bologna, il Mulino, 2009, pagine 614, euro 33) dagli storici Luca Baldissara e Paolo Pezzino, secondo i quali quanto accadde a Marzabotto e nei borghi limitrofi fu una vera e propria azione militare, pianificata dai vertici dell’esercito a seguito dell’ordine emanato il 17 giugno 1944 dal feldmaresciallo Kesserling, comandante delle truppe tedesche in Italia; una direttiva che sostanzialmente garantiva impunità ai comandanti che nelle pratiche repressive si fossero spinti a particolare durezza e spietatezza, anche contro i civili.
Del resto, è quanto venne confermato nei processi del dopoguerra da imputati e testimoni, ma non nel senso delle tesi difensive, per le quali le vittime civili furono solo un effetto collaterale dei combattimenti contro i partigiani. “Giacché – si legge – tali scontri furono, a eccezione di quello in cui venne casualmente ucciso il comandante Lupo, pressoché inesistenti o scarsamente rilevanti, se non addirittura accuratamente evitati dalle stesse unità sul terreno”.
James Holland nel recente saggio L’anno terribile (Milano, Longanesi, 2009, pagine 637, euro 29) ha definito la strategia tedesca con l’efficace formula no people, no problem, anche se poi su quanto accadde a Monte Sole – il massacro di civili quantitativamente più rilevante e tra i più efferati attuati dai tedeschi nelle zone occupate dell’Europa centro-occidentale e meridionale – propende per una lettura più scontata, parlando di una “terribile tragedia di guerra”. Per Baldissara e Pezzino, invece, quell’eccidio è “paradigmatico non solo di un modo di condurre la guerra in Italia da parte delle forze armate germaniche, ma specificamente del modo di intendere e praticare la controguerriglia nei termini di una “guerra di civili” nel contesto di una discussione di lungo periodo intorno ai caratteri della guerra regolare e alla illegittimità della guerra irregolare”.
Ma ci sono anche altre chiavi di lettura interessanti in questa opera accurata e documentata. E anche la proposta di modificare il nome dell’eccidio ha una sua valenza. In primo luogo per sbarazzarsi dall'”eccesso di retorica” che fino a oggi ha caratterizzato la “strage di Marzabotto” e che ha finito per avere effetti negativi sulla verità dei fatti. A partire dal numero effettivo dei morti. Si è dovuto infatti attendere il 1995 per scoprire che non era esatta la cifra di 1.830 accreditata all’inizio – riferita in realtà alle vittime totali in quell’area nel corso di tutto il conflitto, comprese, quindi, quelle dei bombardamenti – ma che i morti attribuibili alla strage furono 770, tra i quali 216 bambini sotto i 12 anni, trucidati tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 in centoquindici luoghi diversi, anche se vicini.
Ma l’aver più che dimezzato il numero degli assassinati non sminuisce la portata del massacro. Gli autori lo sottolineano con chiarezza, ritenendo tuttavia che la ricostruzione di quanto avvenuto a Marzabotto abbia risentito pesantemente delle opposte interpretazioni ideologiche, da quella eroica, che ha tentato di descrivere la resistenza con un alone di quasi sacralità, a quella temporalmente più vicina che tende invece a colpevolizzare le bande partigiane, responsabili non solo di aver provocato la dura reazione dei nazisti contro i civili inermi, ma anche di non averli difesi.
Così, sostengono Baldissara e Pezzino, “a forza di svuotare di storicità l’esperienza antifascista e quella resistenziale, cioè di ottunderne le contraddizioni, rimuoverne i chiaroscuri, decontestualizzarne le vicende, travasando nella realtà storica una rappresentazione sempre più artefatta di essa e di volta in volta funzionale al mutare dei contesti politici, dell’antifascismo e della resistenza quali fenomeni e processi storicamente determinati restava ben poco”.
Ecco, dunque, la necessità di ripulire per quanto possibile anche la ricostruzione di ciò che accadde a Monte Sole da ogni sedimento ideologico, pur nella consapevolezza che “non si potrà mai più dipanare del tutto una matassa intricata, di cui ormai non si trovano i molteplici capi”. E il modo migliore è quello di attenersi ai fatti. Che, a una analisi più accurata, risultano affatto diversi. Si comincia con lo smontare la tesi – sostenuta in tutte le deposizioni dai nazisti persino attraverso un inverosimile aumento del numero delle perdite – secondo la quale almeno il primo giorno del rastrellamento su Monte Sole i partigiani della locale brigata “Stella Rossa” abbiano opposto strenua resistenza; una versione tesa a giustificare la reazione sui civili.
In realtà, secondo gli studiosi, i tedeschi si imbatterono per caso di primo mattino nel comandante partigiano Mario Musolesi, detto Lupo, che rimase ucciso nel conflitto a fuoco, ed “è difficile credere che in quei due giorni si siano svolti accaniti combattimenti”. Del resto, sottolineano, diversamente da quanto si ritiene, le truppe della sedicesima divisione granatieri Reichsführer-ss, comandate dal famigerato maggiore Walter Reder, “non cercavano mai lo scontro diretto”, limitandosi a rispondere al fuoco partigiano, senza tentare di conquistare le postazioni nemiche.
Per la verità in primavera c’erano stati tentativi di annientare la “Stella Rossa” – organizzazione poco politicizzata, spesso in contrasto con la dirigenza del Comitato di liberazione nazionale, composta da persone del luogo – ma erano falliti. Tuttavia quelle operazioni spiegano perché i partigiani siano subito fuggiti all’arrivo degli ottocento militari comandati da Reder. Pensavano di essere gli unici ricercati dai nazisti e che quindi i civili sarebbero stati lasciati in pace.
Invece Reder aveva ordini precisi e una strategia pianificata che prevedeva terra bruciata attorno ai partigiani. Una strategia che non tralasciava nulla: i nazisti setacciarono ogni centro abitato, ogni fabbricato, stalla, fienile; avevano i nomi degli abitanti della zona, bambini e donne compresi. Tutti vennero uccisi sul posto. E se qualcuno si salvò – perché solo ferito o ritrovatosi senza un graffio sotto i cadaveri di familiari e conoscenti – trovando rifugio altrove, venne assassinato nei successivi e non meno metodici rastrellamenti.
Una strage di tale efferatezza e di simili proporzioni aveva bisogno di un colpevole. Ma Reder – per quanto “ovunque fosse passato, la popolazione civile era stata investita da un’ondata di terrore” – non era il solo ad avere responsabilità. Nella ricostruzione di Baldissara e Pezzino – quest’ultimo autore di un recente libro sulla strage di Sant’Anna di Stazzema – assume rilievo anche la figura del tenente colonnello Ekkehard Albert, considerato “personaggio chiave” in quanto autore delle dettagliate mappe utilizzate per l’operazione, ma che “incredibilmente è riuscito a passare indenne attraverso i processi del dopoguerra”. Così come il maggiore Helmut Loos, cui era affidata la rete di intelligence legata alla lotta partigiana, il cui ruolo venne occultato dai suoi camerati nei vari interrogatori. Il saggio fa spesso riferimento al più significativo lavoro attualmente disponibile sull’argomento, Marzabotto e dintorni 1944 (Bologna, Ponte Nuovo, 1996, pagine 734) scritto da don Dario Zanini, parroco di Sasso Marconi, del quale non si condivide in particolare l’impostazione antipartigiana. In sostanza il sacerdote attribuisce ai partigiani sia la responsabilità di aver provocato la rappresaglia dei nazisti sia il non essere intervenuti non appena questa era iniziata. Baldissara e Pezzino appaiono più prudenti. “I partigiani – è la loro valutazione – si possono giudicare impreparati a misurarsi con la strategia distruttiva dei tedeschi, e certamente mostrarono di esserlo. Ma che la stessa inadeguatezza riguardasse i civili rappresenta il sintomo evidente che il massacro di Monte Sole fino al 29 settembre 1944 era ancora un evento inimmaginabile. Di fronte al quale, dunque, in nessun caso era facile stabilire quale fosse il giusto comportamento umano e individuale, prima ancora che militare e collettivo”. L’ultimo capitolo del ponderoso saggio, frutto di un minuzioso e paziente lavoro di ricerca, è dedicato ai processi, da quello a carico di Reder nel 1951 a quello conclusosi nel 2008 con la condanna di una decina di subalterni. Ma al di là della ricostruzione dei fatti, probabilmente il merito principale del libro sta nel valorizzare “di quel crimine della guerra la singolarità storica e al contempo la portata esemplare di un’epoca”.