Ungulati in Appennino – Il resoconto del convegno alla Rocchetta Mattei

img_3529-copia2016/10/09, Vergato – Ungulati in Appennino: un filiera trasparente delle carni per sostenere gli agricoltori e rilanciare l’enogastronomia di qualità. 

Si è svolto alla Rocchetta Mattei un convegno voluto dall’Unione dei comuni dell’Appennino bolognese che ha coinvolto diversi attori per discutere sul problema della eccessiva presenza di animali selvatici in Appennino e della necessità di una filiera maggiormente controllata. 

Ridurre il numero degli ungulati e individuare un fondo per sostenere gli agricoltori che subiscono danni dalla loro presenza. Gli ungulati, animali selvatici che popolano l’Appennino bolognese, possono infatti diventare una risorsa importante: serve però una filiera trasparente delle carni, che rispetti le densità obiettivo regionali e garantisca la qualità della selvaggina contrastando il mercato nero. Sono questi alcuni dei temi emersi dal convegno che si è tenuto alla Rocchetta Mattei, promosso dall’Unione dei comuni dell’Appennino bolognese, durante la quale si è discusso partendo da un progetto sperimentale presentato dal biologo e tecnico faunistico Nicola Canetti.

img_3528-copiaIl progetto parte da due premesse: le aziende agricole professionali, che da tempo denunciano la presenza di animali selvatici come un grave danno per le loro attività, solo calate nel bolognese del 30% in dieci anni, a fronte di una presenza di ungulati nei territori appenninici che negli ultimi tempi può dirsi stabile o apparentemente in calo per caprioli, cervi e daini, mentre è in crescita per i cinghiali (se ne stimavano 4600 nel 2012, 5300 solo due anni dopo). 

A fronte però di migliaia di abbattimenti di cinghiali ogni anno, solo una parte esigua di capi finisce conferita nei centri di lavorazione ufficiali, come ha spiegato Aldo Zivieri, gestore del centro di raccolta di Castel di Casio: segno evidente che esiste un mercato non controllato dal punto di vista sanitario e fiscale che stime prudenti possono attestare si avvicini intorno al milione di euro l’anno.

La proposta è allora quella di lavorare sulla cultura e la formazione dei cacciatori (che oltre tutto sono in costante calo: erano 3469 nel 2002, nel 2012 sono scesi a 2870) incentivandoli a fornire la selvaggina ai macelli controllati per promuovere una carne di qualità che rivaluti le eccellenze dell’enogastronomia locale. L’idea è quella di tracciare la filiera tramite un marchio di qualità e destinare una parte dei proventi ad un fondo a favore degli agricoltori. Un prodotto di qualità, controllato e verificato da una filiera trasparente, può arrivare a valere 25-30 € al chilo, ma garantisce anche i ristoratori che possono spendere di più per un prodotto a chilometro zero sicuramente più sano e appetibile.

img_3523-copiaCome hanno infatti spiegato Gabriele Squintani e Roberto Barbani dell’AUSL di Bologna, le corrette pratiche di lavorazione della selvaggina, se effettuate in ambienti idonei, riducono la contaminazione delle carni rendendone il consumo sicuro. Sempre l’AUSL – che ha stipulato una convenzione con la Città metropolitana per affidare alla polizia provinciale i controlli sulla tracciabilità degli ungulati –  d’accordo con gli ATC BO 2 e BO3 vuole arrivare ad un sistema informatico unico per ATC, polizia metropolitana e centri di lavorazione della selvaggina che permetta un confronto dati più efficace e faciliti la lotta al contrabbando delle carni.

Non vogliamo certo né fare aumentare il numero degli ungulati sul territorio – spiega il presidente dell’Unione Romano Franchi – né tanto meno complicare la gestione faunistica e venatoria. Crediamo soltanto che ostacolare il mercato nero e valorizzare i prodotti sani nel rispetto dei piani di controllo e della gestione faunistica, possa servire da un lato a tutelare cacciatori e ristoratori onesti, dall’altro a trovare le risorse per compensare gli agricoltori dai danni subiti”. “Certificare la filiera tramite un marchio – aggiunge Giorgio Vitali, consigliere dell’Unione e coordinatore della tavola rotonda – può permettere di trovare un punto di equilibrio tra cacciatori e agricoltori. Una filiera certificata e un prodotto tracciato infatti possono diventare una risorsa economica per il nostro territorio”.

Simona Caselli, Assessore all’Agricoltura Caccia e Pesca della Regione Emilia-Romagna, si è detta pronta ad accettare la sfida e proporre, se necessario, interventi sulla normativa regionale, che ponga per esempio un limite ai capi che un cacciatore può consumare da sé, tuteli i centri di raccolta esistenti, incentivi l’apertura di nuovi. Il problema della eccessiva presenza di cinghiali nell’Appennino bolognese, ha confermato l’assessore, è noto in Regione e verrà affrontato nell’ambito del Piano Faunistico Venatorio regionale in cui sarà rivisitato, se si renderà opportuno, anche il ruolo e la forma giuridica degli ATC.

La volontà di collaborare fattivamente al progetto, ciascuno per i propri ambiti di intervento, è stata confermata anche dagli altri relatori presenti, Tiberio Rabboni per il GAL Appennino bolognese, Andrea Scappi dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) e Massimo Rossi, Direttore Ente Parchi Emilia Orientale.

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