La racconta la Rita… quand ai êra al cèv fora da l’òss ‘d cà

2019/10/05, Vergato – Un regalo che ci fa Rita Ciampichetti, la riproduzione dei suoi racconti pubblicati sulla sua pagina FB, ora anche per gli amici di Vergatonews24.it.

Racconti che vorremmo su un libro da leggere in una sola volta in una notte d’inverno quando i rumori si attenuano ed è più facile ritornare a quei tempi per noi nascosti nelle pieghe dei ricordi, ma ora… storie da leggere, ai nostri nipoti… grazie, Rita!

Uscita settimanale, la domenica.

Vergato – Via Cavour

Rita Ciampichetti

13 giugno 2019 

…. quand ai êra al cèv fora da l’òss ‘d cà

Dall’età di circa otto anni fino agli undici ho vissuto in un vecchio palazzo chiamato in paese “Casa Gentilini”.
L’edificio di tre piani costruito nel 1913 da una rinomata famiglia del paese, scampato ai bombardamenti della guerra, offriva alloggi che all’inizio del ‘900 potevano essere all’avanguardia, ma che negli anni ’60 avevano già qualche carenza in termine di modernità.
L’appartamento dove abitava la mia famiglia, al secondo piano del palazzo, aveva il privilegio di avere il gabinetto all’interno, per gli appartamenti più piccoli e dell’ultimo piano il gabinetto era esterno in condivisione di due famiglie. All’inizio, almeno per mia mamma, è stato difficile abituarsi, nell’abitazione di Porretta Terme avevamo in casa il bagno completo dei classici tre elementi ed anche il telefono.
La mamma si è dovuta rassegnare ad acquistare una bacinella grande di zinco dove, al sabato, si faceva a turno il bagno nella cucina riscaldata in inverno dalla stufa economica in quanto naturalmente il riscaldamento centralizzato non c’era.
In compenso l’appartamento era grandissimo, con alti soffitti e bellissimi pavimenti con piastrelle esagonali bianche, rosse e nere che creavano motivi cromatici di grande effetto. La mamma, maniaca della pulizia della casa, passava infinite ore in ginocchio a stendere la cera in crema e a sfregarli con pezze di lana fino a quando non risplendevano e obbligandoci poi a girare con i pedalini se indossavamo le scarpe.
Al di là però di questi particolari meramente materiali il vero pregio di “Casa Gentilini” era l’intreccio dei rapporti umani tra le diverse famiglie tali da poterla paragonare più ad una comune che ad un condominio.
Il simbolo più evidente di tale reciproca partecipazione nella vita del palazzo era rappresentata dal fatto che nel buco della serratura esterno di ogni porta degli appartamenti, se in casa c’era qualcuno, era infilata la chiave. Se avevi bisogno non bussavi o suonavi, aprivi ed entravi dicendo solo ad alta voce: “E’ permesso???”. Era poi tanta la fiducia che spesso la chiave rimaneva fuori dalla porta anche per tutta la notte.
Quanto mi sono divertita in quegli anni con gli altri bambini del palazzo! C’era un grande cortile attraversato da un canale, dove le mamme lavavano i panni, vecchi edifici con legnaie e cantine, ricchi di nascondigli, orti con alberi da frutta…praticamente un Paradiso per noi bambini di quel tempo che indubbiamente godevamo di quella libertà che oggi, con i tempi che corrono, non ci sogneremo cento di concedere ai nostri figli e nipoti. Nelle lunghe giornate d’estate passate ad inventarci giochi infiniti ci fermavamo solo per rispondere “Sì…. siamo qui….” a qualche mamma che dalla finestra controllava la situazione. A quei tempi ogni adulto sentiva il dovere di dare un’occhiata ai bambini lasciati liberi di giocare in strada ed anzi, se combinavi qualcosa di non corretto, si sentivano pure autorizzati a sgridarti e a mollarti una scapaccione e tu non ti azzardavi certo a lamentarti con i tuoi per il rischio di prendere dose doppia.
A “Casa Gentilini” c’era tanta cooperazione tra le famiglie soprattutto in occasione di momenti particolari che possiamo ricondurre a quando arrivavano le diverse forniture di legna per l’inverno da tagliare e stivare nelle legnaie, durante le feste natalizie per la preparazione dei dolci e dei tortellini, quando si rifacevano i materassi per cardare a mano la lana e per diversi piccoli piaceri reciproci quali badare ai bambini, assistere un anziano e varie commissioni.
E’ altrettanto evidente che tanta partecipazione e solidarietà andava ripagata rinunciando ad un po’ di privacy. A quei tempi prima o poi tutti venivano a sapere vita, morte, miracoli e omissioni di ognuno ed era estremamente difficile nascondere un segreto. I momenti dolorosi come quelli felici venivano inevitabilmente condivisi nel palazzo.
In particolare, di quei tempi, mi sono rimasti due ricordi: la preparazione dei tortellini per Natale e la tradizione della veglia.
La preparazione dei tortellini avveniva qualche giorno prima del Natale, allora non c’erano tanti frigoriferi per la conservazione. Ogni sera, a turno in ogni famiglia, le donne di riunivano per impastare, tirare la sfoglia e fare i tortellini.
Addetta a tirare le sfoglie e tagliare i quadrati da riempire era la Signora Adele di Casa Fanelli, rinomatissima sfoglina, con un solo difetto, almeno per le uniche due bambine del palazzo di sette/otto anni: io e la mia amica Flaminia.
La Signora Adele tagliava tortellini minuscoli che solo le dita piccoline di noi bimbe riuscivano a stringere alla perfezione e così venivamo “fagocitate” per questo ingrato compito con “promesse” alettanti. All’inizio eravamo divertite e ci sentivamo anche importanti, ma con il prolungamento dell’impegno sempre più scocciate e adirate con la Signora Adele.
Altra abitudine passata che invece mi piaceva moltissimo era quella dell’ “andare a veglia”, da non confondersi con l’attuale “andare a trovare gli amici”.
Questa pratica era usuale particolarmente durante l’inverno e si andava a veglia quasi tutte le sere, ora in casa di uno ora in casa dell’altro. Non c’era il televisore e si passava il tempo a chiacchierare nel caldo della cucina, aspettando che le castagne si abbrustolissero, mentre i grandi bevevano vino brulè che odorava di cannella e chiodi di garofano. Dal momento che il quotidiano era già stato argomento di discussione durante il giorno, quasi sempre si raccontavano storie passate, esperienze vissute di viaggi, le vicende di guerra che avevano lasciato ferite ancora aperte, pettegolezzi di paese. Adoravo andare a veglia e stare ad ascoltare queste storie, specialmente quelle che facevano un po’ paura di luoghi dove si “sentiva” e si “vedeva” e che, una volta tornata a casa, ricordandole a letto prima di dormire mi facevano raggomitolare sotto la coperta imbottita con tutta le testa.
Ora nessuno si sogna più di lasciare la chiave fuori sulla porta, abbiamo messo infiniti catenacci tra il nostro rifugio e il mondo di fuori e come diceva il Professor Bellavista “Gli uomini, invece, gli uomini si dividono in uomini d’amore e uomini di libertà, a secondo se preferiscono vivere abbracciati gli uni con gli altri, oppure preferiscono vivere da soli e non essere scocciati”. A che genere apparteniamo noi ora???