Racconta la Rita… Gino l’infarmir…

2019/12/11, Vergato – Sempre dalla pagina FB di Rita Ciampichetti un’altra storia che parla di una persona ancora ricordata con affetto.

Rita Ciampichetti
Gino l’infarmir…
Quando ho vista pubblicata dalla Cristina Diamanti sul gruppo di Vergato questa fotografia, mi sono piacevolmente sorpresa perché, seduto proprio nel mezzo del gruppo, mi sorrideva mio suocero Gino ancora giovane.
Gino era infermiere e quando dico infermiere intendo dire che quell’uomo alto, robusto con due manone stile pale da fornaio era e si sentiva infermiere dalle unghie dei piedi alla radice dei capelli.
Nelle sue vene scorreva tutta la passione e il desiderio di essere un sollievo al dolore e alla malattia degli organismi viventi sia essi appartenenti al genere umano, animale o addirittura vegetale.
Nella sua lunga carriera in ambito sanitario, inizialmente nella Croce Rossa successivamente nell’INAM (Istituto Nazionale Assistenza Malattia), ha vissuto incredibili episodi di vita che hanno arricchito un patrimonio di ricordi tristi e aneddoti divertenti che amava raccontare. In famiglia, dopo averli sentiti nel corso degli anni svariate volte spesso si sbuffava un po’: “Al saven beli!! Basta sànper cla fôla”.
Invece io amo i racconti del passato e non mi stanco mai di ascoltarli, profondamente convinta che nulla di più prezioso esista al mondo delle testimonianze orali che purtroppo, se non si trasmettono raccontandole a nostra volta, rischiano di andare irrimediabilmente perdute.
E’ per questo che nelle lunghe sere d’estate, dopo che gli altri erano già andati a letto, raggiungevo mio suocero in terrazza dove si tratteneva a lungo per respirare un po’ di aria fresca e lo sollecitavo al racconto “Gino ma come è stata quella volta che ti misero per sbaglio al muro per fucilarti e grazie alla Madonna di San Luca ti sei salvato???”
“L’è veira..” rispondeva ed iniziava a cullarsi in quei lontani ricordi e a raccontare…. rigorosamente in dialetto, sì perché Gino, nonostante avesse un po’ studiato ed avesse frequentato per lavoro dottori e professori amava comunque parlare in dialetto ed anche quando chiaccherava in italiano con qualcuno che il dialetto non lo comprendeva, intercalava comunque il discorso con termini dialettali salvo provvedere poi velocemente alla loro traduzione.
I racconti più affascinanti erano quelli del periodo della guerra. Faceva parte del personale militare di assistenza alla Croce Rossa ed andava con i treni ospedali a recuperare quei poveri militari mezzi congelati nella ritirata di Russia e ricordava quando, togliendo le luride fasce, che i soldati usavano al posto delle calze, dai piedi congelati, assieme alle bende venivano via anche le dita. Diceva “Tótti äl vôlt ca riusiva a salver un di chi pover ragäz fté d strâz e viola de fradd pinseva a la cuntentezza ‘ed sô mèder a vàdderl turnèr a cà viv”. Purtroppo quando tornò a casa lui non ebbe la gioia di riabbracciare la sua mamma perché nel frattempo era morta. Racconti tristissimi di sofferenze umane inaudite in nome di cosa?? Forse è per questo che Gino decise di stare dalla parte neutrale a servizio della Croce Rossa che non guardava in faccia all’appartenenza nazionale, ma solo alla necessità di un aiuto medico. Qualcosa di buono Gino deve averlo fatto perché appese alla parete, incorniciate ci sono diversi attestati di benemerenza, una croce al merito di guerra, una croce di anzianità di servizio della Croce Rossa e un attestato del Comando Militare Territoriale di Bologna che recita “ Fanini Primo (questo era il suo primo nome, ma tutti lo chiamavano Gino) Caporale infermiere della Croce Rossa distaccato a sua richiesta con le squadre rastrellatori mine, in oltre un anno di servizio si prodigava nell’opera di pronto soccorso superando i limiti del suo compito di infermiere in occasione di purtroppo numerosi incidenti, si lanciava, benchè incompetente, nell’interno dei campi minati al fine di soccorrere più celermente i rastrellatori colpiti. Esempio di coraggiosa abnegazione e solidarietà umana”.
Ricordava di quel periodo anche episodi divertenti come quello, per esempio, di quando lo mandarono a servizio presso un noto casino di Bologna. Doveva controllare, prima che accedessero ai servizi della casa, diciamo “lo stato di salute” dei soldati.
Mio marito lo prendeva in giro dicendo “Dîm mò só babo, quenti volt té tôlt in men di pistulin cla vôlta lè??” e lui di rimando “Te propri un stóppid e pò stémmett!!” e pudico, arrossendo terminava lì il racconto…
Altri aneddoti divertenti erano quelli riferiti al periodo lavorato successivamente presso gli ambulatori dell’INAM (Istituto Nazionale Assistenza Malattie). Come qualcuno ricorderà è stato un ente pubblico italiano al quale era affidata la gestione dell’assicurazione obbligatoria per provvedere, in caso di malattia dei lavoratori dipendenti privati e dei loro familiari, alle cure mediche e ospedaliere. E’ stato sciolto nel 1977 a seguito dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.
Tanti erano i racconti che Gino mi faceva riguardo ad episodi che gli erano successi nella sua lunga esperienza lavorativa, ma in particolare me ne ricordo uno che ancora oggi mi fa sorridere.
Questi ambulatori erano frequentati da varia umanità, ma la caratteristica principale era che a quei tempi la maggioranza dei pazienti parlava solo in dialetto e spesso Gino, oltre a fare l’infermiere, fungeva da interprete con il medico.
Un giorno arrivò fresco fresco di laurea un dottorino da Barletta, lascio a voi immaginare le difficoltà di comprensione che potevano esserci e Gino veniva chiamato sempre più spesso a svolgere questa attività di intermediazione.
Un giorno però non era presente al lavoro e nel pomeriggio incontrò per strada un suo amico, Alfonso che tutti però chiamavano Funsett, che lo fermò e guardandolo negli occhi gli venne incontro battendosi con l’indice la tempia. L’incontro tra i due lo riporto in forma di dialogo perché penso renda di più.
Funsett: “Gino… Gino c’al nov dutåur l’è mât da lighèr!”
Gino: “Mò parchè Funsett cosa l’è capitè?”
Funsett: “A son stà a la mutua parchè a la nòt avêva fat ‘na colica”
Gino: “E alåura???”
Funsett: “Al dutåur al ma dmandà in italien: “Èt magnè quèl ‘d catìv?”!!!”
Gino: “E te cosa t è détt?”
Funsett: “Un p’ ‘d rîs alàss e sc’evo”
Gino. “E al dutåur cosa l’ha arspost??”
Funsett: “Caro signore il riso in bianco è impossibile che le abbia fatto male, sarà stato lo sc’evo!!” “Ch’al vàga a fèr di grogn!!!”
Gino: “Funsett torna dmàn ch’a i sån anca mé …t al dégg mé l’è mej!!!”
Questo fa parte dei ricordi di racconti ascoltati riferiti a piccoli episodi di vita passata vissuta, di pochissima importanza rispetto ad avvenimenti di peso molto più rilevante ed impattante emotivamente, ma non so per quale alchimia questi piccoli ricordi rimangono chiusi dentro alle scatoline della memoria ed ogni tanto ritornano fuori quasi per caso, strappandoti un sorriso sul far della sera.
L'immagine può contenere: 12 persone, persone che sorridono, persone in piedi
 
 
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