IN CASO DI …
Primavera 2021
Si era svegliata di soprassalto, guardandosi attorno. Riconobbe la stanza, gli oggetti, persino i tanti odori. Aveva dormito nell’appartamento dei suoi genitori, proprio come un anno prima; ma le cose erano cambiate. L’epidemia non c’era più, eppure in sogno tutto era riapparso reale, tangibile, troppo percepibile.
Provò a riaddormentarsi, pensando alle proprie aspirazioni, quelle dettate dalla mancanza o dalle assenze. “I sogni vivono lì”, le avevano detto, “In quello che non c’è”. E lei era d’accordo.
Pensò al ragazzo, al suo ragazzo. L’anno prima, tutto si era dissolto in poco tempo. Aveva sofferto, molto; però senza lacrime. Stava cambiando la vita, l’esistenza tutta, il comportamento di ciascuno; e il loro rapporto appariva minimale, quasi nascosto dagli accadimenti quotidiani. C’era la pandemia.
“Come stai?”, si domandavano spesso al telefono, il più delle volte in modo automatico. La loro mancanza, quella vicendevole, aveva perso valore, perché c’era bisogno d’altro e l’assenza viveva altrove.
Simona, questo era il suo nome, l’anno prima si era trovata “bloccata” a casa dei genitori. Un’improvvisa ordinanza governativa aveva impedito ogni spostamento. Franco, il suo ragazzo, abitava due comuni più in là: irraggiungibile.
“Ce la faremo”, ripetevano l’un l’altra al telefono; ma lo slogan era di tutti: dai politici in giù, rafforzato dai media. Finiva però per dissolversi tra i passanti, ormai reciproci avversari di un contagio troppo possibile, a un solo metro di distanza.
Simona, nel letto, cambiò posizione. Il sogno pareva riproporsi, anche a occhi aperti. Ricordava le mascherine e la conta quotidiana dei contagiati. Le giornate diventavano lente, impossibili, accompagnate da un’aria tersa, primaverile, tiepida e dolciastra.
“Speriamo finisca presto”, ripetevano i suoi, più volte al dì. “Speriamo cosa?”, si domandava Simona. “Si auspica per ciò che non c’è”, ripeteva a se stessa. “Quando vuoi proteggere quanto ti rimane, le cose si complicano”.
Insomma, proprio non riusciva a dormire. La sua stanza di bambina non le restituiva alcun conforto. L’aveva ripercorsa l’anno precedente, nelle lunghe giornate di “confino”: le bambole, i giochi, le fotografie, persino quel diario più volte iniziato e rimasto lì, incompleto e assente.
“Alla fine, ci scopriremo migliori”, le aveva detto un giorno Franco. “Per cosa?”, si era domandata Simona. E poi: “Cosa sperare quando sei costretto a proteggerti?”.
Anche suo padre, l’anno prima, la conduceva fuori strada. “Tua nonna ha conosciuto la guerra!”, affermava spesso. “Oggi ci chiedono solo di rimanere in casa!”.
Troppo facile. A Simona quelle parole suonavano banali, inconsuete, persino ambigue. Combatteva lavandosi le mani, non sfregandosi gli occhi, mettendosi in coda fuori dalla farmacia. La nonna si nascondeva, usciva la notte e vinceva tutte le volte che rimaneva in vita. Ha visto arrivare gli Americani, da laggiù, oltre il monte. Poi un giorno le hanno detto: “La guerra è finita!”. E il suo desiderio si avverava, perché l’assenza risultava palese: mancava la pace!
“Finirà un giorno la mia guerra?”, si chiedeva spesso Simona l’anno precedente. “Me lo diranno quando accade?”.
Sua madre, di sotto, armeggiava con i fornelli. Il profumo di caffè saliva le scale. Simona scese in vestaglia.
“Buongiorno”, disse sua madre. Simona rispose solo con un gesto. Riconobbe la tazza, i biscotti, il latte troppo caldo.
“Hai visto Franco?”, le chiese il padre.
“Non lo vedo da un anno”, rispose lei.
“Peccato”, ribadì il genitore.
“La pandemia ci ha rovinato la vita”, affermò Simona.
“I tuoi nonni amoreggiavano sotto le bombe e l’avrebbero fatto anche con l’influenza!”.
“Babbo, la guerra toglieva la vita, ma la faceva desiderare: migliore, per giunta”. “La pandemia ha cambiato le regole, peggiorandole il più delle volte”. “Tutto è diventato più grande di noi, diverso, differente”. “All’improvviso, si è annullato lo spazio per amarsi, ne è morta l’idea”.
“Cosa farai oggi?”, chiese ancora il padre.
“Proverò a convincermi di essere migliore, come diceva Franco”. “Adesso vado a vestirmi”.
Simona salì le scale disgustata. Il brutto sogno le turbava ancora la mente e con esso i contagi, le conte, le promesse televisive. Anche la sua stanza non le restituiva serenità, perché il passato è dolce se s’intravede un futuro.
Indossò gli abiti del giorno precedente, quasi controvoglia.
“Vado a Porretta”, disse di sotto.
“Per fare cosa?”, le chiesero.
“Non lo so”.
Il treno non era affollato come anni prima. Trovò da sedersi. Osservava il paesaggio dal finestrino, quasi a trovare qualcosa di nuovo; poi chiuse gli occhi, tentando di appisolarsi.
“Come stai?”, chiese una voce.
Era Franco.
“Non hai paura di contagiarti?”, domandò Simona.
“Perché?” “E’ tutto finito”, rispose lui.
“Quando?”.
“Cosa?”.
“Dimmi quando!”.
Franco rimase senza parole. Simona si alzò di scatto, senza che il ragazzo potesse fermarla. La raggiunse nel vagone successivo.
“Leggi qui”, disse lei.
“Dove?”
“Qui”, ribadì Simona, indicando una scritta con il dito.
In caso di necessità, rompere il vetro.
I trasgressori verranno puniti dalla legge
“E’ un’ordinanza, c’è scritto sotto”, disse Franco.
“Ne ho sentito parlare l’anno scorso”, rispose la ragazza.
I due arrivarono a Porretta e si misero a camminare. Evidentemente entrambi non avevano una meta prefissata. In piazza riconobbero i sapori di sempre: c’era il mercato, come l’anno prima.
Divieto di sosta nei giorni di mercato
I trasgressori verranno puniti dalla legge
“Vedi”, disse Simona, “C’è un’altra ordinanza”.
“Per te ormai sono un incubo”. “Ce ne sono tante altre: le gomme da neve d’inverno, la circolazione in città …”.
“Hai ragione Franco, scusa”. “Troppe volte però non vince il buon senso”. “Lo scorso anno ci hanno tolto le abitudini, la consuetudine, il senso del vivere quotidiano”.
“Tu esageri”.
“Forse, ma noi dovevamo saperlo, almeno immaginarlo, desiderarlo persino”. “Invece?”, continuò Simona, “Ci siamo fermati per comprendere ciò che ci sarebbe stato tolto”. “Dovevamo cambiare, da subito: solo così saremmo stati migliori”.
I due presero la via del voltino. Passeggiarono verso la Chiesa senza parlare, evitando anche di guardarsi. Pensavano entrambi (forse) a come accorciare le distanze.
Arrivati alla scalinata, Franco si mise a saltare i gradini; poi si voltò all’improvviso.
“Oggi siamo migliori”, disse. “Quest’anno non ci ha tolto nulla: siamo qui, insieme”.
“Non abbiamo vinto”, rispose Simona. “Ci incontriamo da sopravvissuti”.
Franco parve deluso e di certo lo era. Si mantenne distante, sino al piazzale della Chiesa. Simona si appoggiò al parapetto, guardava il paese.
“Abbiamo avuto paura di noi, caro Franco; quando era il momento di cambiare”. “La nostra casa avrebbe dovuto trovarci uniti, per ricominciare”. “E invece siamo fuggiti a noi stessi”. “Non ci ha aiutato nemmeno la conoscenza, il sapere ciò che stava accadendo”. “Ci leccavamo solo le ferite”.
Un attimo di silenzio, poi Simona riprese:
“Ricordi la scuola?”. “Dante?”
“Insomma”, rispose lui.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza
“Neanche il sapere può esserci d’aiuto senza l’aiuto della virtù”, ribadì lei. Poi si voltò ancora verso il paese.
Franco le arrivò alle spalle, cingendole la vita. Le mani di lei si appoggiarono a quelle di lui.
“Mi aiuterai?” chiese il ragazzo.
Lei non rispose. Porretta di lassù era bella.
Luciano Marchi |