LA STANZA DEL TEMPO NOSTRO Primavera 2022
Lei correva a perdifiato, in Piazza a Porretta. Doveva raggiungere via Mazzini e percorrerla fino alla stazione dei Carabinieri. E il suo tempo stava per scadere.
In giro c’era troppa gente: pioveva, e l’acqua pareva una benedizione, più di una giornata di sole. Molti spalancavano le braccia, guardando in alto; altri saltavano sulle prime pozzanghere, quasi tutti rimanevano stupidi nel sentire la pioggia tiepida e dritta sulle mani.
Anna ogni tanto urtava qualcuno, il che interrompeva per un attimo il flusso dei suoi pensieri. Ma il tempo correva, e il suo stava per scadere.
“Ancora un bacio”, le aveva detto Renzo. “Dammene un altro”.
“Non c’è tempo, mi fermeranno”, era stata la risposta di lei.
“Non incontrerai nessuno, vedrai”, suggerì lui.
I due si abbassarono la mascherina, congiungendo le labbra. A loro piaceva quel gesto: era come scoprire una reciproca pudicizia. Si mostravano a vicenda, come la prima volta che rimasero nudi, l’uno di fronte all’altra. Ci fu piacere, tanto; ma anche una sorpresa infinita.
Ed eccola lì, Anna, col respiro in gola; a guardare tra la gente per capire se fosse mai riuscita ad arrivare a casa.
“Cosa fanno tutti qui?”, si domandò. E intanto guardava avanti, oltre le teste, al di là di quella pioggia ormai decisa e incessante. Gli ombrelli le versavano l’acqua sul collo, ma la paura superava il fastidio: era recidiva.
“Documenti e permesso”, scandì una voce alle sue spalle.
“Cosa?”, chiese Anna
“Lei può uscire a quest’ora?”, domandò la voce, per poi ribadire le parole di prima: “Documenti e permesso”.
Anna tirò fuori quanto richiesto. L’agente osservò i documenti, poi fissò la ragazza con severità. “Ci segua”, disse.
Lei se lo aspettava. S’incamminò con i due in divisa, ripercorrendo a ritroso via Mazzini. In piazza la fecero entrare nel palazzo Comunale.
“Aspetti qui”, le dissero.
Nell’ampio androne Anna era sola. Con un fazzoletto s’asciugò i sopraccigli, guardando fuori: oltre il poltrone.
“C’è sempre un bacio di troppo”, pensò; ma poi convenne che era il tempo disponibile a essere stretto, quello concesso dall’epidemia.
Da due anni le abitudini erano cambiate. Rimanevano le alluvioni, le estati calde, gli inverni senza neve e a tutto ciò si erano aggiunte le epidemie periodiche. Venivano annunciate con normalità, come una consuetudine; e si doveva rimanere in casa, potendo uscire solo in tempi contingentati, secondo un ordine alfabetico.
I dati influenzali erano pubblicati in ogni dove: in stazione, al bar, nel grosso schermo del palazzo Comunale; e recitavano: contagi, decessi, guarigioni. Come ogni volta si auspicava una fine, che quasi sempre tardava ad arrivare. Poi tutto tornava alla normalità, senza grida né entusiasmi.
Si spegnevano gli schermi e basta.
“Venga dentro”, pronunciò una voce.
Anna si alzò con pigrizia, controvoglia potremmo dire. Seguì l’agente dentro una grande stanza, che non aveva visto la volta precedente. Rimase quasi disorientata. Al centro dominava una grande stufa, il cui tubo correva verticale fino al soffitto. Accostati alle pareti facevano mostra di sé degli ampi divani.
In fondo, dall’altro lato della stanza, troneggiava una scrivania antica, dietro la quale andò a sedersi l’agente.
“Prego, si accomodi”, fu l’invito di lui; e con la mano le indicò dove.
Anna scelse una delle due seggiole a disposizione.
“Si metta pure comoda”, ribadì l’agente.
Anna si tolse il soprabito e lo poggiò sull’altra sedia, assieme alla borsa. Congiunse le mani sulle ginocchia, in un atteggiamento signorile e dignitoso. Le gambe, unite l’una di fianco all’altra, correvano in diagonale di fronte la seduta.
Era una bella donna.
“E’ la seconda volta che la becchiamo”, disse il gendarme.
Anna tacque.
“Lei poteva uscire dalle 14 alle 17”, ribadì l’uomo in uniforme.
“Troppo poco”, pronunciò la donna.
“Troppo poco?”. “E’ la legge”, fu la risposta.
Anna non aveva voglia di sentire. Ne sarebbe seguita una lunga reprimenda, suffragata da dati, numeri, pericoli, senso civico.
“Se tutti facessero così …”.
Quella frase decretava la fine del rimprovero, così si sarebbe passati alla fase due: una multa raddoppiata e una lunga quarantena.
“Solo io faccio così, non si preoccupi”, disse Anna.
Il gendarme la guardò infastidito e concluse:
“Indossi la mascherina, la accompagniamo a casa”.
Due vigili la presero sottobraccio. Anna non ne volle sapere.
“Cammino da sola”, disse.
Fuori c’era Renzo.
“Ho chiamato casa tua, per sapere se eri arrivata …”
“Hai visto?”. “Il tuo bacio in più”.
“Non volevo …”.
“Lascia stare, non è quello il punto”, precisò Anna.
Camminarono in silenzio: i tre davanti e dietro Renzo. La ragazza si voltò all’improvviso, tra la sorpresa di tutti. La pioggia battente le gocciolava sul volto.
“Dovevamo saperlo”, disse a Renzo.
“Cosa?”, domandò il ragazzo.
“Me lo domandi?”. “Tutto quello che vedi”. “Siamo come dei bambini delle elementari: tre ore d’aria e nulla più”. “Dov’è la nostra fantasia?”. “Corri qualche rischio, caro Renzo; senza, la vita non varrebbe nulla”.
Renzo si fermò. Guardò i tre che camminavano e per un po’ non disse nulla.
“Vado a casa”, affermò poi, urlando un poco.
“Sì, certo”, rispose lei. “Il tuo permesso sta per scadere: fai il bravo”.
I tre arrivarono alla casa di lei. Anna entrò, con dietro i vigili.
“Ci risiamo”, disse il padre. “Ti hanno preso ancora”.
“Cos’è successo?”, chiese la madre.
“E’ stata fuori più del tempo concesso: arriverà un’altra multa”, ribadì il genitore.
“Perché fai così?, chiese la mamma.
“Oh, lasciatemi stare; basta con questi brontolii”, disse Anna, e si lasciò cadere su una seggiola, con il soprabito addosso.
Una voce chiamava da fuori, ripetutamente. Anna corse alla porta.
“Chi è?”, chiese il padre.
“No lo so”, rispose la madre.
“Entra”, disse Anna al nuovo venuto. Era Renzo.
“Cosa fai qui?”, domandò la ragazza.
“Il mio permesso è scaduto …”.
“Chi è?”, chiese il padre.
“Renzo”, rispose Anna.
“Renzo”, disse la madre.
“Renzo chi?”, borbotto ancora il genitore.
“Renzo”, ribadì la madre.
Il ragazzo pareva spaesato. Si guardava attorno come se dovesse familiarizzare con quella casa.
“Siediti”, disse Anna; quindi gli si parò di fronte con aria minacciosa, rimanendo in piedi.
“Non voglio più trovarmi in questa situazione”, continuò la ragazza. “Ci saranno delle epidemie?”, “Bene”. “Desidero una stanza, per le epidemie, un libro, della musica, un rifugio, delle fotografie da riscoprire”. “Devo essere pronta, consapevole; non mi bastano tre ore al giorno”. “Mi manca il sogno, l’idea, il progetto; poi posso stare al chiuso anche un mese: che se lo tengano il loro permesso”.
“Cosa sta dicendo?”, chiese il padre.
“Lascia stare”, suggerì la moglie.
“Perché?”, ripropose il genitore; poi decise per il silenzio.
“Adesso c’è un’epidemia”, pronunciò Renzo.
“Sei pronto?, chiese Anna.
“Lo spero”, balbettò il ragazzo.
“Bene, stanotte dormi con me”.
“Con chi?”, chiese la madre.
“Non ho capito”, disse il padre
“Ascoltate”, disse Anna. “Renzo mi ha già visto senza mascherina”.
Anna e Renzo vissero felicemente insieme. In effetti, arredarono una stanza per i momenti difficili. La pulivano ogni tanto, ma vi trovavano rifugio alla bisogna, anche solo per litigare.
C’era tutto, in quell’ambiente: quel libro e quella musica; fotografie, fogli, appunti, ricordi.
Viaggiarono molto, i due; in tutto il mondo e quando si poteva. Pianificavano gli spostamenti al chiuso, in quella stanza.
Ebbero due figli, gli ospiti principali di quell’area creativa; per delle riunioni che iniziarono a svolgersi in quattro.
Un dettaglio intimo. Quando Anna e Renzo volevano congiungersi, indossavano la vecchia mascherina. Iniziava da lì il piacere, la curiosità, il desiderio. In fin dei conti, si erano conosciuti così.
Luciano Marchi |