LIBERAZIONE e LIBERTA’
Aprile 1945
La città non era come la vediamo oggi. Si camminava su strade polverose o fangose, a seconda che ci fosse il sole o piovesse, soprattutto in periferia.
Non tutte le case erano in piedi. Alcune avevano lasciato il posto a cumuli di rovine, frequentati da persone taciturne che, chine e a mani nude, cercavano un po’ del loro ieri tra i mattoni.
Si aspettava, resistendo; ed era fame, miseria, incertezza e paura.
La bambina vedeva tutto questo, con occhio infantile. Non poteva riferirsi a un passato migliore, perché la guerra si era presentata assieme al suo approccio alla vita, quello consapevole.
Possedeva poche certezze: la madre, spesso malata, e la nonna, che si occupava di lei quotidianamente.
Alta, esile, quella bambina portava i capelli raccolti in due lunghe trecce, completate da un fiocco. Il vestito era liso, rammendato più volte.
Ai piedi calzava due ciabatte. Le scarpe se le era inghiottite la guerra.
Non poteva dirsi infelice. Cercava e trovava il gioco dappertutto, correndo laddove tra le rovine si erano formati dei sentieri. C’erano delle amichette, tra le sue compagnie, ed anche dei ragazzini; ma il silenzio abitava nel loro frequentarsi: quello che aspettava un richiamo materno o l’urlo di una sirena.
Un giorno per la bambina il mondo parve cambiare. Gli ultimi soldati se ne erano andati e si aspettava.
Anche gli spari iniziarono a tacere, con le bombe che non cadevano più. Solo il vento sibilava tra i sassi, finché …
“Nonna, nonna, c’è confusione in fondo alla strada, posso andare a vedere?”.
“Stai attenta”, urlò una voce dalla casa.
Così lei corse laggiù, dove il rumore diventava più forte, con la zia Rosina per mano.
“Andiamo, andiamo”, ripeteva.
“Vai piano, mi fai cadere”.
“Andiamo”.
Ai lati della via si snodavano due cordoni di persone, ammassate sui marciapiedi. Dei camion in colonna transitavano veloci, fermandosi ogni tanto. Volti nuovi si guardavano in giro, stupiti da tanta gente che non smetteva di salutare.
C’era chi voleva salire, così: solo per partecipare.
Erano arrivati soldati nuovi, diversi forse, ma sempre con lo sguardo lucido e attento. Lanciavano qualcosa, distrattamente: quasi divertendosi.
La bambina cercò di raccogliere ciò che cadeva, ma vi erano mani più veloci delle sue; e gente che spingeva.
Guardò in alto. Da un camion fermo un soldato si accorse di lei.
Scese e le mise in mano tanti pacchettini. I due si guardarono a lungo: lui felice, lei stupita; anche perché il militare continuava a darle cose, troppe, che finivano per caderle ai piedi.
Erano caramelle.
La bambina parve svegliarsi. Arrotolò la gonna come un grembiale. Non si vergognò di mostrare le gambe, cercando altresì di trattenere il più possibile.
Era un miracolo, o forse un gioco mai provato.
Il camion partì, con un alito di polvere. Il soldato guardò la bambina finché potette; poi lo sguardo reciproco s’interruppe, come un lampo di luce attraverso un bicchiere.
“Nonna, nonna; guarda cosa mi hanno dato!”.
Tornando a casa non aprì nulla: non lo avrebbe fatto senza il permesso di un adulto. Delle mani anziane scartarono uno dei piccoli pacchetti, provocando un rumore che pareva un crepitio.
La sorpresa era ovale e rossastra, dolce più dello zucchero.
La bambina dormì soddisfatta nel lettone con la nonna. I tempi erano cambiati e non bisognava scendere nel rifugio.
Il giorno dopo, un’altra sorpresa apparve agli occhi della bambina. Un camion verde con una stella bianca sostava davanti casa, dall’altra parte della strada. Ne fu incuriosita, ripensando anche al soldato del giorno prima.
Si vestì velocemente, senza mai staccare lo sguardo dalla finestra.
“Ti sei lavata la faccia?”, urlò una voce dalla cucina; ma lei era già vestita. Con le ciabatte ai piedi corse verso la porta.
“Mangia almeno un pezzo di pane”, le dissero.
La bimba parve non sentire, ed era già al cancello. Qualcosa la tratteneva: forse era paura, o anche eccesso di curiosità. Doveva andare verso il camion, ma per cosa?
Camminò lentamente, fino quasi a toccare le grandi ruote; poi si mise a guardare all’insù. Rimase così a lungo, durante un tempo interminabile, come in una fotografia. I piedi li teneva uniti, con le braccia che correvano lungo i fianchi.
Il suo sguardo fissava i soldati.
Un militare si accorse di lei, anche stavolta per un istante che pareva infinito.
La bimba allungò una mano, col palmo rivolto verso l’alto; poi mosse anche l’altra. L’americano vi posò sopra delle scatolette, tante. Lei faticò a trattenerle tutte, poi le portò al petto; dopo, il suo sguardo divenne sorriso e scappò a casa.
Aveva conquistato la cena della libertà.
La scena si ripetette tutti i giorni, con le stesse modalità. Le mani chiedevano e il soldato regalava, generosamente.
Un giorno il camion sparì e della sua presenza rimasero solo le impronte. La bimba pianse, a lungo, con disperazione. Ma occorreva crescere, in fretta; così comprese come la libertà non rappresentasse soltanto un alito di vento, bensì un bene da costruire: con pazienza.
Gli anni passano
Il tempo passò in fretta. La strada fu ricostruita a dovere. La bimba crebbe velocemente e s’innamorò di un ragazzo che passava di continuo in bicicletta.
I due si sposarono e vagarono per la vita.
Tornarono più volte in quei luoghi e la ragazza, ormai adulta e madre, non dimenticava di dedicare uno sguardo al posto dove, anni prima, era parcheggiato il camion verde con la stella bianca.
Ricordava le cene conquistate e la generosità inaspettata.
Il nome della bimba è Arianna, la mamma di Mosè.
Luciano Marchi |