Rita Ciampichetti – La Lastra del Diavolo: Si fece coraggio e si voltò, la ragazza non c’era più…

2021/09/19, Vergato – Dopo la pubblicazione della prima parte del racconto, “La Lastra del Diavolo” ecco la seconda.

Rita Ciampichetti vive a Vergato e la sua passione di raccontare ha riportato, grazie ai social, a riscoprire le vecchie tradizioni degli ultimi cinquant’anni del secolo passato. Tradizioni di famiglia di nascita e ancora di più dalla famiglia acquisita, con l’incontro con Rosita e Gino, i suoceri protagonisti dei racconti in parte pubblicati su questo blog. Ora un racconto…lungo!

Si fece coraggio e si voltò, la ragazza non c’era più.

Sara sentì la scarica di adrenalina che l’aveva colpita come una fucilata, attenuarsi poco a poco, come pure l’ondata di brividi successivi che partivano dalla base del collo per diffondersi sino alla sommità della testa e che le provocavano il raddrizzamento di tutti i peli che aveva. Non riusciva in alcun modo a controllare quelle sensazioni.

Non ricordava quando le era successo per la prima volta, ma analizzando nel tempo il fenomeno, con una buona dose di razionalità, lo aveva associato alla tipologia del luogo dove si trovava quando le accadeva.

Erano sempre posti significativi e importanti per i fatti che storicamente vi erano accaduti.

Le era successo in modo violento a Monte Sole dove era stato perpetrato l’eccidio nazista, al Cimitero germanico della Futa,  alla diga del Vajont, a Stonehenge in Inghilterra, alla piramide di Cheope in Egitto, alla piramide del Sole di Teotihuacan in Messico, in una forma più lieve le succedeva quasi sempre durante i funerali e poi quando pensava a suo padre, che le era mancato qualche anno prima, però in quel momento lo sentiva così vicino che i brividi non la spaventavano, ma la confortavano.

Col tempo aveva iniziato a farci un po’ l’abitudine e aveva tenuto celata questa sua particolarità imputandola ad una sua elevata sensibilità a quelle situazioni o a quei luoghi che da alcuni venivano ritenuti fonti di energie sconosciute e inspiegabili scientificamente e che, secondo una sua personalissima teoria, erano portali oltre ai quali esisteva quella che lei chiamava “l’Altra Dimensione”

“Accidenti, ma questa “Lastra del Diavolo” è arrivata dallo spazio?”, si chiese e riflettendo sull’accaduto non se la sentì più di continuare la passeggiata e si riavviò verso casa, “Povero Antenore, l’ho lasciato praticamente tutto il giorno da solo!” e si sentì un po’ in colpa.

Quando rientrò in casa udì l’acqua della doccia scrosciare in bagno, si mise in cucina ad apparecchiare la tavola. Prima della passeggiata aveva messo una pignatta di terracotta con dentro una zuppa di legumi vicino alle braci accese del camino.  La zuppa aveva sobbollito piano piano sprigionando il suo profumo per l’ambiente ed ora era solo da scodellare, un giro di olio di frantoio, una spolverata di parmigiano, una grattatina di pepe ed ecco pronto un piatto che avrebbe scaldato lo stomaco e l’anima.

Antenore, nonostante la doccia, mostrava tutta la stanchezza di una giornata di duro lavoro, perciò, dopo cena, andarono a letto “con le galline”, naturalmente non gli raccontò nulla, nemmeno quando lui le domandò prendendola in giro: “Quanti lupi e cinghiali hai incontrato oggi?”

La mattina seguente si sentì in dovere di aiutare suo marito almeno a tirare la rete, lavoro faticosissimo anche da fare in due, mentre sudava combatteva contro il desiderio di tornare nel pomeriggio alla “Lastra del Diavolo” pensando in alternativa di dirottare la sua passeggiata esattamente verso la parte opposta.

Purtroppo non resistette e nel tardo pomeriggio riprese il sentiero che la conduceva là mettendo in conto quello che le sarebbe successo.

Come il giorno prima vide la ragazza seduta nel solito posto sul bordo della “Lastra del Diavolo”, ma la reazione fisica che sentì fu più lieve rispetto alla prima volta.

Nell’avvicinarsi pensò: “Questa volta le parlo, magari butto lì qualcosa a proposito del tempo, tanto per attaccare bottone… poi si vedrà!”

Quando le fu accanto, si accorse che lavorava svelta coi ferri delle solette per le calze di lana, si ricordò di sua nonna, pure lei d’autunno iniziava a fare le solette di ricambio per i calzettoni di lana del nonno, ma usavano ancora lì?

Si schiarì la voce e le disse con voce gioviale: “Buongiorno, bel settembre quest’anno, abbiamo tutti i giorni delle splendide giornate”

La ragazza si voltò, sorrise con quella espressione triste e le rispose: “Non piove, non va bene per le castagne”

“E già, non ci avevo pensato” rispose Sara, poi aggiunse: “Io non sono molto pratica, abito a Bologna, abbiamo comprato un podere, Cà d’Adamo e  stiamo ristrutturando la casa, non conosco ancora nessuno qui a Casigno, tu dove abiti?”

“Sono la Mariuccia, stiamo alla Cà Nova” e poi continuò parlando a se stessa “Il sole sta scendendo… anche oggi non è venuto… chissà perché… dovevo dirgli una cosa importante… domani.. speriamo…” e si girò con apprensione a guardare il sentiero, laggiù dove svoltava, istintivamente anche Sara girò la testa nella stessa direzione e quando si voltò verso la ragazza, questa era sparita.

Non vide l’ora di tornare a casa per interrogare Antenore.

“Scusa Antenore sai per caso dov’è la Cà Nova e hai sentito dire da qualcuno se una comunità di Elfi l’ha occupata?”

Chissà perché le era venuta questa idea degli Elfi, ma l’abbigliamento e l’aspetto esteriore della ragazza le avevano portato alla memoria quando era andata a fare una supplenza in quel di Sambuca Pistoiese e aveva avuto modo di conoscere dei soggetti un po’ particolari abbigliati in modo antico che si definivano Elfi e che vivevano  in  comunità a stretto contatto con la natura. Avevano occupato  terre e ruderi abbandonati da decenni in mezzo ai boschi e raggiungibili solo a piedi e privi ovviamente della  rete elettrica, si riscaldavano con la legna, raccoglievano frutti ed erbe spontanee, coltivavano ortaggi, cereali, castagne, olive e allevavano piccoli capi di bestiame.

Suo marito le rispose che la Cà Nova sapeva benissimo dove era e che non aveva sentito nulla riguardo una eventuale sua occupazione abusiva, ma dal momento che a questo mondo c’è posto per tutti, se l’avevano occupata gli Elfi e non recavano disturbo, a lui andava bene, almeno avrebbero presidiato il territorio.

“Domani mattina, se non hai tanto da fare visto che abbiamo  finito la recinzione, ti dispiace accompagnarmi alla Cà Nova? Vorrei togliermi una curiosità e poi è da un po’ che non facciamo una passeggiata assieme” gli propose Sara.

“Da fare ce n’è sempre, ma per farti un piacere ti accompagno, poi mi racconterai di questa altra tua stramberia!!” le rispose perplesso suo marito.

Il mattino seguente, dopo colazione, si avviarono per una “cavedagna” poco distante da casa loro che costeggiava campi ormai incolti. il bosco, poco per volta, iniziava a riprendere possesso della terra non più lavorata con arbusti di sanguinello, acacie, siepi di rovi, prugnoli e biancospino. Ad un certo punto la “cavedagna” cambiò aspetto ed iniziò a spuntare uno sconnesso acciottolato.

Probabilmente, al fine di evitare il fango e renderla più agevole, nel corso degli anni gli abitanti del posto avevano pavimentato la strada con i ciottoli tolti dai campi creando delle carreggiate per le ruote dei carri che in certi punti si intravedevano ai bordi.

Finalmente arrivarono all’edificio rurale denominato Cà Nova.

Osservandolo Sara pensò che non vi aveva messo più piede essere umano da almeno venti anni. Era una grande casa di almeno tre piani, ancora ben conservata, con i piccoli scuri ermeticamente chiusi. Attorno però la natura aveva preso il sopravvento coprendo con lunghe catene di vitalbe ed edera gli alberi da frutta piantati per il consumo domestico: diversi meli, peri, ciliegi, non più potati e curat, protendevano al cielo numerosi rami secchi. I tralci di una vecchia vite si erano abbarbicati come potevano e da questi pendevano grappoli dorati di uva infestati da vespe assetate.  Una distesa di alte erbacce rinsecchite  copriva le lastre dell’aia e vario materiale arrugginito faceva mostra di sé dentro ad  una rimessa con il cancello sgangherato, anche gli edifici accessori stalla, fienile, porcilaia con attaccato il forno non versavano in condizioni migliori, ma erano testimoni comunque di una azienda agricola che poteva contare, anche se in montagna, su campi posizionati favorevolmente che avevano assicurato in passato un certo benessere.

Di Elfi però nessuna traccia e Sara pensò immediatamente a cosa avrebbe detto a Mariuccia quel pomeriggio, sempre ammesso che l’avesse trovata ancora là, a sedere sulla sponda della Lastra del Diavolo.

Contò i minuti che la separavano dall’ora della passeggiata che finalmente arrivò, senza nemmeno salutare Antenore si incamminò a passi talmente veloci che arrivò alla Lastra quasi ansimando, Mariuccia era là seduta composta al solito posto.

Quando le fu di fronte Sara la salutò: “Ciao Mariuccia, che piacere vederti.. come va?”

Mariuccia la guardò con occhi tristi e non disse nulla.

Per niente scoraggiata Sara proseguì: “Sai stamattina sono stata alla Cà Nova, ma non c’era nessuno”

Mariuccia sorpresa replicò: “Impossibile, siamo in dodici, qualcuno a casa doveva pur esserci… i lavori grossi nei campi sono finiti, abbiamo già anche arato” e sospirò guardando lontano lungo il sentiero.

Sara rifletté qualche minuto e concluse che evidentemente Antenore, ancora poco pratico del posto,  si era confuso e l’aveva portata in un’altra Cà Nova. Infatti aveva notato che in Appennino i toponimi erano ripetitivi,  per esempio conosceva almeno due o tre case chiamate La Serra.

Mariuccia sembrava una anima in pena, sempre con gli occhi fissati laggiù dove il sentiero spariva e con il petto che si alzava ed abbassava in lunghi  sospiri.

Sara stette in silenzio qualche minuto poi le chiese: “Dimmi Mariuccia, come sai io non sono di qui, non conosco nessuno e di me ti puoi fidare, ma chi stai aspettando così inutilmente? Te lo prometto, non lo dirò con nessuno!”

La ragazza nascose il viso nel grembiule e iniziò a singhiozzare sommessamente e a raccontare, mentre Sara veniva percorsa da brividi talmente forti che le arricciavano quasi la cute della nuca.

“Signora sto aspettando Giovannino, Giovannino della Pianella, abita nell’altra vallata, quella dell’Aneva a Labante. Ci siamo incontrati lo scorso anno a funghi, io sono salita verso la Castellana e lui invece scendeva giù, come è bello… ci siamo piaciuti subito. Abbiamo la stessa età, diciotto anni, siamo ancora minorenni, la mia famiglia non ne vuole sapere, per loro è uno di fuori. Vogliono assolutamente  farmi sposare mio cugino Vittorio che ha venti anni, il figlio della sorella di mia madre, per fare rimanere la mia dote in famiglia come dicono loro. Hanno già chiesto al Signor Arciprete di fare le pratiche per la dispensa. Io non lo voglio, non mi piace, voglio bene a Giovannino. Per fortuna mia nonna mi comprende e tutti i giorni mi manda a prendere l’acqua puzzola a Bocca ‘d Re dicendo che le fa bene, così con quella scusa possiamo vederci di nascosto, povero Giovannino lui fa tanta strada in mezzo ai boschi per venire da questa parte. Adesso Vittorio è nell’esercito e un mese fa è tornato in licenza per la convalescenza da quella brutta influenza che è in giro e che è riuscito a superare, ma non l’ha fatta tutta la licenza perché prima finirla è partito di nuovo ed è tornato al suo plotone, su al Nord”

Sara la guardò e le chiese “E’ stato contagiato dal Covid 19?”

Mariuccia la guardò dubbiosa e rispose “Non so come la chiamano i dottori, noi diciamo che è la Spagnola!”

….continua

Rita Ciampichetti

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