Rita Ciampichetti – Il cagnolino di peluche

2022/06/08, Vergato – Un racconto “morbido” di Rita Ciampichetti;

Il cagnolino di peluche

Sono nata nel 1957 a Porretta Terme, oggi Alto Reno Terme,   ho trascorso in questo paese i primi otto anni della mia vita che hanno lasciato ricordi della mia infanzia ancora vivi nel cuore.

Abitavo con la mia famiglia in quella zona in destra Rio Maggiore sopra all’ex laghetto, raggiungibile percorrendo la strada per Madognana e che negli anni ’60 e forse anche oggi dalle persone più anziane era chiamata i “villini svizzeri” per l’atipicità architettonica di quella abitazione ancora esistente con il tetto spiovente.

Oggi è una zona residenziale di un certo rilievo, allora risiedevamo tutto l’anno solo in due famiglie, la strada non era asfaltata, ma era una mulattiera che si inerpicava sul rilievo con il fondo costituito da grosse pietre e che diventava un torrentello quando pioveva forte. Non c’era ancora la piscina olimpionica, però il laghetto pieno d’acqua o per i più arditi la cima del Monte della Croce costituivano le mete preferite delle passeggiate per i numerosi villeggianti che in quegli anni venivano a “passare le acque” alle rinomate e fiorenti  terme porrettane.

Lì attorno non c’erano bambini della mia età con i quali giocare e pertanto sono cresciuta un po’ “selvatica” circondata dalla natura di quei posti un po’ al di fuori dal paese, non avevo paura ad andare sola nel bosco in compagnia del cane e riuscivo a inventarmi ugualmente tantissimi giochi avendo per compagni solo gli animali: conigli, gatti, cuccioli.

Una estate venne a trovarmi mia zia con la mia cuginetta di pochi anni più grande di me, a distanza di molti anni mi confessò che quello che le era rimasto impresso di più di quella vacanza era che disdegnavo giocare con lei con bambole, tegamini ed altri trastulli simili, ma che la piantavo regolarmente da sola per andare a giocare con i miei conigli.

Quando ebbi cinque anni le amiche della mamma iniziarono a dirle: “Chissà che fatica farà la Rita il prossimo anno ad adattarsi ad andare a scuola, sarebbe meglio che iniziasse a frequentare l’asilo, solo per imparare a stare in mezzo agli altri bambini”.

Fu così che la mamma mi iscrisse alla scuola dell’infanzia  Santa Maria Maddalena che allora aveva la sede accanto all’Ospedale Costa. Il primo giorno mi trascinò piangente giù per la mulattiera fino all’asilo e mi lasciò lì.

Spesso ripenso a come si è evoluto nel corso del tempo il rapporto figlio-genitore o in genere bambino-adulto.

Certo non si prestava molta attenzione o non si dava certo peso a quello che oggi, per maggior sensibilità, vengono definitivi impatti psicologici.

Oggi sono previsti i percorsi di inserimento nelle scuole materne, ieri tua mamma ti portava all’asilo, ti consegnava alla suora o alla maestra, ti salutava e la rivedevi nel pomeriggio, stava a te elaborare il senso di abbandono, la paura di non rivederla, l’attesa ansiosa del suo arrivo, ma tutto questo era considerato normale perché era una tappa del percorso “diventare grande”.

Se a scuola venivi punito, a volte forse anche ingiustamente, non ti azzardavi nemmeno andare a casa e protestare con i genitori, le avresti prese anche da loro.

Che dire poi della squisita sensibilità dimostrata da certi adulti in alcune occasioni. Ricordo ancora quando la mamma tornò a casa dall’ospedale con la mia sorellina e le amiche la venivano a trovare facendo chiaramente mille complimenti alla nuova nata, invece a me, bambina dopotutto di soli sei anni,  prendevano per il ganascino dicendo: “Adesso sei caduta giù dal gradino è vero? La tua mamma adesso deve badare alla piccolina!”

Nonostante tutto siamo cresciuti e forse queste modalità educative un po’ spartane ci hanno temprato ad affrontare con più determinazione le asperità della vita.

Indubbiamente però già allora, da buon Ariete, ero la quintessenza della testardaggine , perché io all’asilo non ci volevo andare, nella maniera più assoluta.

Misi in campo tutte le armi a disposizione di una bambina di cinque anni ed in particolare pianti angoscianti da appena alzata, a colazione, durante il tragitto, al momento dell’abbandono, durante la giornata. Presa dalla disperazione mia madre, dietro la promessa che il giorno dopo non avrei ripetuto la scena penosa, passando davanti ad un negozietto di giocattoli sulla via del ritorno, solitamente mi comprava un qualche gingillo da poche lire. Io promettevo, ma il giorno dopo si ripeteva lo stesso penoso copione.

Fu così che subentrò in campo il capo-famiglia: mio padre.

Allora diciamo che la crescita e la cura dei figli era nella maggior parte dei casi di competenza materna. Il padre interveniva solo in casi molto gravi quali le punizioni esemplari.

“Stasera, quando torna dal lavoro,  lo dico a tuo padre!” è stata una delle minacce materne che, proferita con il giusto tono di voce, ha ottenuto i risultati d’ubbidienza più immediati.

Quel giorno fu mio padre a venirmi a prendere dall’asilo e a riportarmi a casa.

Passammo davanti al solito negozietto dei giochi, la commerciante che lo gestiva era una anziana signora dai capelli bianchissimi che a me ricordava tanto la befana. Il negozio piccolo e scuro era colmo di cose per me bellissime, ma quel giorno, in particolare, nella vetrina vidi un piccolo cagnolino di peluche. Era sdraiato, bianchissimo, con le orecchio color arancio e la bocca un po’ aperta, con un campanellino attaccato al collo, semplicemente delizioso.

Allora non c’era ancora l’inflazione dei pupazzi di peluche, era il primo che vedevo, un antenato degli attuali Trudini.

Mi fermai a guardarlo estasiata, doveva costare una fortuna.

Il babbo non proferiva parola. Quando parlò mi chiese solo perché non volevo andare all’asilo. Gli risposi che laggiù mi sentivo in prigione, io volevo giocare nel prato con i conigli e respirare l’aria. Non mi comprò nulla ed io non mi azzardai a chiedere niente, mi allontanai girata guardando ancora al cagnolino.

Il mattino dopo non andai più all’asilo e nemmeno il giorno dopo.

Qualche sera dopo il babbo tornò dalla Caserma ed in mano aveva un pacchetto, senza dire nulla me lo diede in mano, guardò con la coda dell’occhio verso la mamma occupata a preparare la cena e portò l’indice sulla bocca. Scartai la carta e dentro, avvolto nella carta velina, trovai il cagnolino di peluche. La felicità di quel momento mi esplose dentro e nemmeno i rimbrotti e le rimostranze della mamma nei confronti del babbo riuscirono a scalfire lo stato di assoluta esultanza di quegli istanti.

Sono passati sessanta anni da quella sera e quel piccolo pupazzo è ancora con me, l’unico gioco superstite della mia infanzia sopravvissuto a tanti eventi. Il pelo non è più bianchissimo, in alcuni punti si è diradato e appare sotto la trama della stoffa, un orecchio si è staccato ed è andato perso, da un piede viene fuori la stoppa, il nasino ricamato a mano si è scolorito, ma se lo scuoto il campanellino tintinna ancora festoso.

Il cagnolino di peluche è  ancora con me come un gioiello dal valore inestimabile, testimone del profondissimo affetto e comunione di spirito che mi legava a mio padre.

Dimenticavo, l’anno dopo iniziai a frequentare con profitto la prima elementare con una dolcissima maestra che aveva il mio stesso nome Rita Brizzi e non ho avuto nessun problema di inserimento, andare a scuola ed imparare mi piaceva moltissimo!

Rita Ciampichetti 2022

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