Quando andavamo dalla sarta – Un racconto di Rita Ciampichetti
2022/06/14, Vergato – Rita Ciampichetti e i suoi racconti brevi, immagini di vita da cui estrarre ricordi e modi di vita del secolo scorso, troppo lontano per essere raccontato ai nostri nipoti? No! Sono trascorsi pochi decenni, forse passati troppo in fretta…
Quall d’la fèsta l’êra l’istàss dal spusalezzi e par la casa da môrt”
Quando andavamo dalla sarta……
Negli anni sessanta, tempo della mia infanzia, non era ancora così diffuso quello che oggi è conosciuto, nel linguaggio della moda, come “prêt-à-porter”, parola francese tradotta in italiano “pronto da portare” che indica quel settore dell’abbigliamento costituito da abiti realizzati non su misura del cliente ma venduti finiti in taglie standard e pronti per essere indossati.
Adesso sia i negozi di abbigliamento che le tantissime bancarelle presenti nei mercati offrono a prezzi abbordabili infiniti generi di vestiti in grado di accontentare tutte le tasche e di sbizzarrire qualsiasi desiderio di cambiamento d’abito per chi ama sfoggiare, a quei tempi i capi già confezionati erano pochi ed ovviamente costosi.
Di conseguenza i guardaroba o meglio gli armadi di allora non erano certo strapieni di capi di vestiario come quelli di oggi.
A chi non è capitato una mattina di aprire le ante del proprio guardaroba, ammirare la distesa di camice, pantaloni, abiti, magliette, vestiti appesi, di trovarsi in difficoltà sulla scelta di cosa indossare e sconsolatamente pensare “Accidenti non ho niente da mettere!” ?
A quei tempi c’erano pochissimi vestiti per “tutti i giorni” e poi c’era “quello della festa”, d’inverno un solo cappotto che durava tutta la stagione, in molti casi anche di seconda mano perché ereditato da fratelli o sorelle maggiori e vi assicuro che decidere cosa indossare alla mattina non era per niente complicato in quanto non vi era possibilità di scelta.
Possiedo ancora il vecchissimo armadio di ciliegio della nonna di mio marito, a due ante, molto piccolo che ora utilizzo per riporvi della biancheria.
Alla domanda: “Maria, ma così piccolo vi bastava?” lei mi rispose: “’ na vôlta i avêven dû o trî ftièri e sc’evo. Quall d’la fèsta l’êra l’istàss dal spusalezzi e par la casa da môrt” (1) e mi sembra che abbia reso benissimo il concetto!
Allora come si faceva?
Diciamo che negli anni ’50 e ’60 in ogni famiglia bene o male le nonne e le mamme si arrangiavano abbastanza con ago e filo, anzi penso siano state maestre nel rammendo e nel rappezzo.
“L’agåccia e la pzôla i mantéignen la famjola” (2) ricordava sempre mia suocera Rosita e in effetti allora tutte le madri di famiglia sapevano fare le operazioni basilari: un orlo nei pantaloni, attaccare i bottoni, una cerniera, le toppe nelle maniche dei maglioni e nei pantaloni altezza ginocchio, rammendare calzini, alcune si cimentavano a fare anche pantaloncini, vestitini, mutandine propri bambini.
Tutte possedevano il cestino da lavoro con il necessario per le attività di cucito e rammendo.
Anch’io ne ho uno, di quelli che si aprono a scomparti e dentro tengo le stesse cose che probabilmente hanno utilizzato mia mamma, mia nonna e le donne prima di loro: gli aghi di differenti dimensioni che conservo in un antico porta aghi regalatomi dalla Rosita, i rocchetti di cotone, un matassina di elastico, l’uovo di legno per rammendare le calze, il metro, le forbici, diversi ditali ed una scatolina stracolma della più variegata gamma di bottoni accumulati nel corso del tempo.
Allora un oggetto quasi indispensabile che ogni sposa desiderava possedere ed imparare ad adoperare era la macchina da cucire, che velocizzava le operazioni di cucitura.
Mia mamma la possiede, mia suocera ne aveva due: una antichissima ed una modernissima che conservo ancora chiuse nei loro bei mobiletti di legno, io non ho mai imparato ad usarle e quando mi capita di dovere fare qualche orlo, lo faccio a mano, ma “gasgare” a mano non è molto allettante. Lo sapevate che il sostantivo “gasgo” e il verbo “gasgare” non esiste su nessun vocabolario? Eppure io l’ho sentito pronunciare tante di quelle volte che immaginavo fosse un termine tecnico del mestiere.
Torniamo però al tema del racconto, a quei tempi quando occorreva un capo importante o fare un lavoro di taglio e cucito più complesso si ricorreva ad un professionista e si andava perciò dalla sarta. Le persone molto abbienti si rivolgevano ad un atelier di alta moda, noi ad una delle tante sarte del paese.
Io adoravo andare con la mamma dalla sarta, mi affascinava in particolare la stanza dove lavorava che penso abbiano tutte le stesse caratteristiche: un enorme tavolo ingombro di pezze di stoffa, modelli di carta, forbici di tutte le dimensioni, scatoline di latta ricolme di spilli, gessetti, panni con sopra il ferro da stiro, rocchetti di cotone di tanti colori, un rocchetto molto più grande con un filo bianco scuro per le imbastiture, la macchina da cucire sempre aperta, un cesto con dentro i giornali con le foto di abiti e spesso anche i cartamodelli, il manichino con sopra un abito appena imbastito, sul pavimento fili e pezzetti di fodera, appesi nelle grucce, perfettamente stirati abiti già finiti. A volte in questo laboratorio, oltre alla titolare c’era anche una ragazza più giovane, solitamente seduta su una sedia intenta ad imbastire o a dare sottopunti, era lì per imparare il mestiere, infatti negli anni sessanta, specialmente nei paesi, non esistevano certo scuole di taglio e di cucito quindi si apprendeva direttamente sul campo partendo dalla gavetta presso l’abitazione di una sarta rifinita che trasmetteva giorno dopo giorno un po’ dei suoi saperi all’aspirante.
Quel laboratorio era un mondo in cui i sogni di eleganza delle signore di quegli anni trovavano realizzazione grazie al lavoro di questa artigiana che sapeva domare ed adattare ogni tipo di stoffa dalla più pesante alla più leggera, dal panno più robusto alla seta più pregiata al corpo umano, nascondendo eventuali difetti ed esaltando gli altrettanti pregi, facendo in modo che il capo indossato “cadesse” alla perfezione.
Riflettendoci penso che necessariamente la sarta deve possedere una serie di virtù per potere esercitare ed eccellere in questa professione.
Innanzitutto deve essere dotata di una notevole abilità manuale, di un elevato gusto estetico, avere una particolare attenzione al cambiamento delle mode e quindi anche propensione a seguire le innovazioni sul campo e per ultimo, ma non meno importante, saperci fare con le clienti dando loro gli opportuni suggerimenti per la riuscita ottimale del lavoro, anche a costo di contraddirle con garbo.
A mia madre è sempre piaciuto essere elegante e da giovane aveva un fisico ed un portamento che riusciva a valorizzare qualsiasi indumento indossato anche il più modesto. Oggi viviamo all’insegna della praticità e spesso, specialmente nel fine settimana, indosso capi comodi o l’irrinunciabile tuta da ginnastica sopportando gli sguardi di disapprovazione della genitrice che quando usciva per fare la spesa si vestiva con accuratezza non trascurando nessun dettaglio.
Quando ero piccola ed uscivamo per la passeggiata domenicale la rivedo ancora prepararsi con cura davanti alla pettiniera della camera da letto, indossare un bel tailleur con il giacchino molto stretto in vita, le scarpe con il tacco a spillo, la borsa abbinata ed i guanti, un accessorio che in quegli anni non doveva mancare mai ad una signora sia d’estate che d’inverno e che con il tempo è caduto in disuso, per fortuna se no oggi ne avrei perso un paio tutti i giorni!
Per il confezionamento dei suoi vestiti si avvaleva perciò della sarta e mi portava con sé, prima in negozio per la scelta della stoffa se era un abito “importante” o magari nel banchetto del mercato per trovare l’occasione dello “scampolo” di tessuto per confezionare un abito da portare tutti i giorni.
Mi affascinava anche l’operazione di scelta della stoffa in merceria, quei metri e metri di svariati tessuti arrotolati sopra delle assi che venivano tirate giù dagli scaffali e appoggiate sul bancone. Il tessuto veniva toccato, valutato come spessore e qualità ed una volta deciso l’acquisto veniva srotolato e misurato il quantitativo richiesto con un metro di legno rigorosamente tarato.
Poi si andava dalla sarta, la lunga scelta del modello, dei bottoni e degli accessori, l’incontro tra i desiderata della cliente ed i suggerimenti dell’artigiana, la presa delle misure, con la sarta che ti girava attorno con il metro e secondo il capo da realizzare misurava petto, braccia, fianchi, vita, varie altezze, appuntando rigorosamente i numeri sopra un foglietto, poi c’erano le prove, anche quelle interessantissime, le varie componenti dell’abito già tagliate e tenute insieme dalle imbastiture venivano indossate dalla cliente e la sarta la osservava con occhio critico da varie angolazioni, spostando spilli, accorciando orli, stringendo o allargando, fino a quando il suo sguardo soddisfatto coincideva con quello della cliente che guardava l’immagine riflessa nel grande specchio. “Adesso le cade perfettamente!” diceva appagata. A me il concetto degli abiti che “cadono” mi lasciava molto perplessa ed una volta ho persino immaginato la mamma per la strada che perdeva pezzi di vestito.
Poi si andava a ritirare il capo perfettamente confezionato, si pagava la relativa “fattura” chiamata sempre così anche se con il documento fiscale non aveva niente da spartire e finalmente, solitamente in un giorno di festa o per un’occasione importante, si “spianava” il vestito nuovo.
Le sarte che ricordo?
Quando abitavamo a Porretta Terme ho solo il ricordo molto vago che la sarta della mamma abitava alla “Ghiacciaia” dove ora c’è la Coop.
A Vergato la mamma invece si avvaleva delle abilità della Signora Fagnano, moglie di un collega del babbo che abitava in Via Pedrini, nel vicolo che mette in comunicazione la piazzetta della fontana con Via Roma. Rammento che confezionò il vestito della Cresima di mia sorella e a me fece due abitini estivi per una vacanza nelle Marche: uno di piquet bianco con il collo alla coreana ed uno a fantasia rossa con le balze. Avevo dodici anni, un’età ingrata dal punto di vista fisico, magrissima, senza seno, praticamente una scopa da vestire, però se guardo le foto li trovo ancora graziosi.
Negli anni successivi non mi sono più avvalsa della sarta per il confezionamento degli abiti, molto meno impegnativo recarsi nel negozio di Dondarini con l’ampia offerta di capi già pronti solo da provare, ma sono ricorsa a questa professionista per quei lavori di cucito che non eseguo per mancanza di tempo o anche di voglia tipo accorciare, stringere, fare un orlo, riadattare un vestito.
Allora il mio pensiero va con una certa malinconia alla conosciutissima Rina Leopardi che purtroppo ci ha lasciato con la pandemia. Mi piaceva molto andare da lei e chiederle di farmi questi lavori, sedermi nella sua stanza attorniata da pile di varie stoffe, spolette di cotone, forbici, metro, con appesi attorno gli abiti provenienti dai negozi di abbigliamento che necessitavano di piccole modifiche, fumavamo una sigaretta mentre si chiacchierava sulle novità del paese e delle rispettive famiglie.
Se ci pensate in effetti il laboratorio di una sarta era un piccolo mondo tutto al femminile dove le clienti inevitabilmente si lasciavano andare a confidenze condividendo con lei gioie, dolori, aspettative perché, come citato da Proust, “Tutto in una donna, anche il dolore più grande, fa capo alla messa in prova di un abito nuovo”.
Traduzioni dialetto:
(1) Una volta avevamo due o tre vestiti .. e basta. Quello della festa era lo stesso delle nozze e per la cassa da morto
(2) L’ago e la pezzuola mantengono la famigliola
Rita Ciampichetti 2022.
Foto; Rita C.