Rita Ciampichetti – Quando il dottore veniva a casa

2022/09/01, Vergato – Quando il dottore veniva a casa

A volte mi capita di pensare a come nel corso degli anni è cambiato il nostro vivere quotidiano, le abitudini, la scala delle priorità, molte necessità non sono più percepite come bisogni primari, alcuni oggetti, un tempo sconosciuti,  sono diventati indispensabili e non ne possiamo più fare a meno e desideri in passato impossibili sono diventati oggi realizzabili.

Non mi reputo eccessivamente anziana, con i ricordi però posso risalire a più di una sessantina di anni fa e ormai mi rendo conto che quando descrivo certi particolari di vita vissuta a soggetti molto giovani mi guardano con la stessa espressione incredula che avevo io da bambina ascoltando i racconti di mia nonna.

Non appartengo alla categoria di quelli che dicono “Si stava meglio quando si stava peggio!”, però ammetto che ho nostalgia di alcune “usanze” passate e non temo di affermare che alcuni modi  di amministrare a quei tempi la res publica erano indubbiamente più efficaci di quelli odierni pur supportati da tanta avanzata tecnologia.

Quando qualcuna delle mie figlie da piccola manifestava sintomi di malattia e la febbre non andava via ed allora vi posso assicurare che capitava abbastanza spesso perché non si facevano tutte le vaccinazioni di adesso contro le malattie infantili infettive,  nonno Gino decretava: “Basta, la fîvra an cala brîsa, adès a vâg a ciamer al Sgnåur dutåur!”, si infilava in testa il cappello ed usciva deciso fuori di casa.

Quando rientrava, soddisfatto comunicava: “L’ha détt c’al pasa dap mezdè a vàdder la pinéñna”

Quasi sempre puntuale rispetto all’appuntamento dato arrivava il Dottor Franco Fini, nostro medico di famiglia come prima suo padre, con la sua borsa, chiedeva dove era la piccola paziente, quali sintomi manifestava ed iniziava la sua scrupolosa visita, iniziando dalla gola, auscultando con lo stetoscopio cuore, bronchi e polmoni, palpando il pancino e così via, poi si andava a lavare le mani in bagno, si sedeva al tavolo, pronunciava sicuro la sua diagnosi, prendeva fuori il ricettario e prescriveva la cura, nonostante le varie offerte di caffè o altro rinfresco rispondeva invariabilmente che andava di fretta perché aveva numerose visite ancora da fare e chissà a che ora avrebbe finito e uscendo di casa si raccomandava comunque di tenerlo informato su qualsiasi cambiamento anomalo si fosse verificato durante il decorso della malattia.

Ormai è un lontano ricordo la figura del medico condotto che, munito di una notevole dose di abnegazione e tanta professionalità, era impegnato per la maggior parte della giornata e sovente anche durante la notte nelle visite presso il domicilio dei pazienti ammalati.

Però confessiamolo non ne proviamo un po’ nostalgia?

Il nostro sistema sanitario ha subito negli ultimi anni notevoli cambiamenti, la tecnologia medica ha fatto passi da gigante e le diverse specializzazioni sono diventate così specializzate che per una diagnosi precisa di un disturbo devi ricorrere a tre o quattro luminari e ad un elenco imprecisato di esami diagnostici, ma quando sei ammalato la prima cosa di cui hai bisogno è quella di sentire parole di conforto, di essere rassicurato da un professionista di fiducia anche se hai solo preso una semplice influenza  ed è fuori di dubbio che quando il dottore di famiglia veniva a visitarti a casa dimostrava quell’attenzione che ti faceva sentire già da subito un po’ meglio e comunque protetto.

Figure professionali paragonabili a quella di medico condotto erano presenti già in epoca romana, erano chiamati archiatri populares e l’imperatore Antonino Pio decretò che per ogni città dell’impero ce ne fosse un numero sufficiente a garantire il servizio di assistenza alla popolazione residente. Nella città di Roma ce n’erano quattordici uno per ogni distretto, erano eletti dalla cittadinanza, pagati dalla città ed obbligati a curare anche gli infermi poveri.

La dizione “medico condotto” possiamo affermare che  nasce nei Comuni italiani già nel  Medio Evo, la parola “condotto” traducibile in “assunto” deriva da “conductum”, participio passato del verbo latino “conducere” e i contatti che i Comuni stipulavano con i medici per la cura dei cittadini indigenti erano appunto detti contratti di condotta.

Con l’unità d’Italia, dal 1861, la figura del medico condotto viene istituzionalizzata, è assunto e stipendiato dall’amministrazione comunale, doveva avere obbligatoriamente la residenza nel Comune dove esercitava il suo servizio ed era tenuto a garantire la propria assistenza 24 ore al giorno, in modo gratuito ai cittadini poveri, inoltre poteva svolgere funzioni di ufficiale sanitario.

Ogni Comune aveva uno speciale elenco degli indigenti che avevano diritto all’assistenza sanitaria gratuita, mentre per gli altri abitanti il medico condotto stabiliva un compenso forfettario annuo.

La presenza medica nei primi decenni dopo l’unità d’Italia era significativa in quanto una rilevazione del 1887 rilevò che i medici italiani erano 17.568, cioè 60 ogni 100.000 abitanti, un rapporto che in Europa era superato solo dalla Svizzera e circa la metà di essi erano medici condotti.

Direi che abbiamo fatto passi da gigante dopo 135 anni.. ma all’indietro perché proprio questa mattina ho letto una notizia che l’Anaao Assomed, il sidacato dei medici ospedalieri, ha calcolato che tra ospedali, pronto soccorso e medici di famiglia, mancano 18.500 camici bianchi. Colpa della “spending review” degli ultimi dieci anni e delle conseguenti politiche dissennate di tagli concepiti solo nella prospettiva del massimo risparmio?

Torniamo alla figura del nostro medico condotto che svolgeva a quei tempi un lavoro duro, dovendosi spostare spesso per lunghe distanze a qualsiasi ora del giorno o della notte con i mezzi di trasporto a quel tempo a disposizione: cavallo o calesse agli inizi del secolo scorso, bicicletta, moto ed auto successivamente. Tanta disponibilità implicava sacrificio, difficoltà a conciliare il dovere con le necessità personali, sapere affrontare le sofferenze dei malati e delle loro famiglie, spiegare loro con parole semplici cosa stava succedendo confortandoli,  contare sulla propria capacità di diagnosi e sulla strumentazione a quel tempo a disposizione per curare le diverse malattie.

Senza alcun dubbio il dottore era in quegli anni una figura quasi romantica, molto rispettata e nello stesso tempo amata e temuta.

La bisnonna Maria, classe 1889, raccontava che quando era ragazzina si mandava a chiamare il “Signor Dottore”, allora non c’era il telefono,  solo dopo avere tentato, senza risultato, i vari rimedi empirici tramandati dalla tradizione popolare  tipo impacchi, infusi, cataplasmi e a volte anche qualche “striona” per segnare, quando si vedeva che dopo alcuni giorni non c’erano cenni di alcun miglioramento ci si rassegnava a chiamare il medico e si attendeva con ansia il suo arrivo pulendo, riordinando la casa e cambiando la biancheria nel letto e all’ammalato.

Quindi si può presupporre che nella maggior parte dei casi era richiesto l’intervento del  dottore in extremis quando la malattia iniziava a dare segni di una certa gravità o complessità nel comprendere la causa.

il loro medico arrivava su un calessino tirato da una cavalla e lo accoglievano con una certa riverenza, la Maria addirittura raccontava che per la soggezione lei da bambina si andava a nascondere nel pollaio, tutti i famigliari rimanevano in disparte, in silenzio attendendo la conclusione della visita.

La Maria ricorda che oltre all’ammalato il dottore voleva vedere sempre anche il vaso da notte con la pipì, che odorava: antichi sistemi quando i laboratori analisi forse erano presenti solo in città.

La donna di casa predisponeva il catino con la brocca dell’acqua calda ed il più bell’asciugamano del corredo  affinché il medico si lavasse ed asciugasse le mani dopo la visita e poi, pieni di apprensione e di speranza si rimaneva in attesa del responso.

Il medico solitamente si sedeva al tavolo  e su un foglietto scriveva la composizione di un farmaco che sarebbe poi stato preparata dal farmacista, non dava la certezza della guarigione, ma che si sarebbe tentato tutto il possibile e, se la malattia era particolarmente grave, si sarebbe recato tutti i giorni a fare visita all’infermo per monitorare l’andamento e modificare le prescrizioni, in casi veramente estremi avrebbe ordinato il ricovero ospedaliero.

Quasi sempre lasciava la maggior parte delle case con un omaggio in natura, raramente con il pagamento di un onorario in denaro se la famiglia se lo poteva permettere.

Quando alle sei del mattino di quel lontano 21 marzo 1957 la mia mamma giaceva stremata nel letto, quasi svenuta e ormai priva di forze dopo una notte di travaglio e di doglie, l’ostetrica molto preoccupata  si decise a chiamare il medico condotto di Porretta Terme che arrivò e aiutò la mamma a darmi finalmente alla luce, senza il suo intervento forse oggi non sarei qui a scrivere.

In passato il medico condotto doveva essere preparato a qualsiasi evento: intervenire nei parti difficoltosi, interventi di chirurgia, immobilizzare arti fratturati, praticare alcune analisi diagnostiche ed è per questo che elemento indispensabile che lo caratterizzava era una capace borsa con dentro tutti i “ferri del mestiere” che potevano servire nelle diverse occasioni e dovevano essere le più disparate dal momento che oltre agli incidenti, prosperavano le pandemie e le malattie non ancora debellate.

Quando andavo nell’ambulatorio del dottore, mentre era impegnato a scrivere la ricetta, mi piaceva moltissimo sbirciare nell’armadietto a vetri dove custodiva strumenti e ferri chirurgici già in quegli anni più recenti forse più come ricordo e collezione che per uso quotidiano. Ora con l’usa e getta non c’è più la scatola di metallo che si usava per sterilizzare le siringhe di vetro, ne ferri chirurgici o antichi stetoscopi di legno.

Il medico condotto sopravvisse fino al 1978 quando  in Italia viene istituito il Servizio Sanitario Nazionale e fu sostituito dal medico di medicina generale.

Nel corso degli anni l’evoluzione delle tecniche e degli strumenti diagnostici, le specializzazioni mediche a cui ricorrere per le diverse patologie se da un lato hanno assicurato la scelta di cure più efficaci e mirate alla patologia, dall’altro, a mio parere, hanno relegato la funzione del medico di base ad un ruolo quasi  amministrativo all’interno del sistema sanitario. La borsa del dottore a mio avviso ora raccoglie più moduli che strumenti per la prescrizione di esami diagnostici e visite specialistiche che genereranno successivamente la redazione di ricette per l’acquisizione delle medicine o delle terapie necessarie alla cura della malattia.

I programmi di divulgazione televisiva ed internet hanno poi fatto sì che ognuno di noi si sente un po’ medico e per assurdo in caso di malessere ci rechiamo con una certa presunzione in ambulatorio dal nostro medico di base con già in testa una idea di quello che possiamo avere e le richieste degli accertamenti che vorremo farci prescrivere: “Dottore voglio fare una tac perché l’altra sera ho visto quel programma televisivo e penso di avere….” oppure: “Ho male al ginocchio e il mio macellaio ha detto che è meglio che mi prescriva una risonanza magnetica!”

Purtroppo ora i medici di base sono anche restii a venire a visitare a casa, solo in casi veramente  eccezionali si recano presso il domicilio del paziente. Il lungo periodo di pandemia Covid ha contribuito poi ulteriormente ad accentuare questa carenza di disponibilità.

Evidentemente nel corso degli anni l’eccessiva burocrazia, la carenza di personale medico nel settore pubblico derivante dai tagli finanziari operati hanno tagliato anche il tempo a disposizione dei medici di base da dedicare alle visite domiciliari.

Per questo motivo forse rimpiango un po’ il medico condotto del passato che ha svolto con abnegazione un compito direi fondamentale: quello di garantire una assistenza sanitaria basata sulla medicina moderna nelle classi sociali più disagiate del Paese diffondendo regole e principi di igiene  attraverso una capillare  istruzione e informazione sanitaria. I pazienti venivano seguiti e curati nella loro casa, non erano abbandonati a loro stessi e soprattutto il proprio medico non era mai irreperibile perché la disponibilità era considerata dalla maggior parte di loro prima di tutto un dovere morale.

Quindi non si può definire la professione del medico un lavoro da timbratura di cartellino, ma dal momento che implicherebbe tanta disponibilità, tanta passione e spirito di sacrificio è da considerare una vera e propria missione di altissimo valore sociale per la comunità e lo Stato deve conseguentemente operare per consentire lo svolgimento al meglio del servizio

Non resta che augurarci che un po’ di quell’ardore e spirito di sacrificio, di quella disponibilità e abnegazione alla professione medica  che hanno animato le migliaia di medici condotti del passato continuino  a risplendere nell’animo delle giovani generazioni di dottori, nonostante l’impegno che alcuni cosiddetti manager della sanità nazionale e regionale hanno profuso per gestire il Sistema Sanitario come una qualsiasi azienda privata  imponendo scelte di risparmio impopolari e non lungimiranti e dimenticandosi, ahimè, che il livello di civiltà di una Nazione si misura dall’efficienza di due sistemi: quello sanitario e quello della istruzione.

Rita Ciampichetti 2022

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