Rita Ciampichetti – La Brigida, cap.10: La Iolanda si presentò indossando un robusto paio di pantaloni

2024/08/26, Vergato – Rita Ciampichetti – La Brigida – Vicende di una famiglia dell’Appennino Bolognese e non solo: Capitolo 10Tempo di mietitura e trebbiatura

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I Veggetti seminavano orzo, grano e avena, l’orzo e l’avena per gli animali, il grano per l’uomo e la maggior parte dei lavori agricoli erano svolti senza l’ausilio di mezzi meccanici, ma solo utilizzando la forza animale.

Le notizie che ascoltavano alla radio regalata da Carlino in quell’anno 1955 facevano capire che l’Italia si stava avviando verso una rivoluzione economica che avrebbe comportato un cambiamento significativo nella vita degli italiani. Era stata presentata una utilitaria la Fiat 600 con la prospettiva di diventare l’auto di tutti e si iniziava a parlare di autostrade e a fare la pubblicità a beni durevoli con la possibilità di acquisti rateali.

Però nelle campagne e soprattutto in Appennino si arava e seminava il grano ancora come facevano gli antichi Romani e una sera Amerigo fece questa osservazione che con il senno di poi si può pensare quasi profetica: “Pensano a produrre auto, frigoriferi e televisori, ma perché non ci danno anche a noi degli aiuti? Perché non si producono trattori, trebbiatrici e attrezzi che rendano meno faticoso il nostro lavoro? Finirà che noi contadini andremo a lavorare in fabbrica e abbandoneremo i campi e se non rimarrà nessuno a far crescere il grano, la frutta, la verdura, gli animali, dovremmo comprarlo il nostro mangiare e quanto ci costerà?” 

Arcordèt Merigo cal noster lavurèr al sarà semper maledatt par la fadîga, tänp brótt, tinpésta. parchè la tèra l’è basa e as suda dimóndi! Guèrda tó fradèl Carlino, l’ha capè incoša!” commentò Adolfo e soggiunse che ormai lui la sua vita l’aveva già vissuta e poi molto praticamente concluse che con trattore o senza trattore il grano andava raccolto.

Il ciclo del grano o in genere dei cereali costituivano le attività agricole più impegnative di tutto l’anno, ma il cui risultato positivo rappresentava la voce economicamente più significativa del bilancio dell’azienda.

Dalla notte dei tempi grano significa  pane, pane allontana la paura della fame, però come ricordava sempre Adolfo “E pén di puvrétt l’ha sèt gròst e un grustin”.

Per ottenere un buon raccolto, sempre stagione permettendo, si sudava sangue: dai lavori di aratura fatta con l’aiuto delle bestie che trainavano l’aratro, togliere i sassi dai campi, la semina e poi l’attesa della nascita e maturazione delle spighe pregando che piovesse e nevicasse nei mesi giusti, contando solo sulla Provvidenza.

Prima si mieteva l’orzo, poi il grano e per ultimo l’avena e in quegli anni la mietitura, in quelle zone appenniniche,  era fatta a mano con al “sagguel”, un falcetto ben affilato; vi partecipavano tutti uomini, bambini, vecchi, donne  perché (p.1) il lavoro era lungo e faticoso e prima si finiva riparando a casa il prezioso cereale, meglio era. Li attendeva interminabili giornate d’estate con la schiena curva sotto il sole cocente a falciare le spighe, ad affastellarle in covoni legati con i vinchi che sarebbero stati trasportati a casa sul biroccio trainato da una coppia di buoi e composti sull’aia nella bica o mòla, una sorta di costruzione fatta a forma di tetto in modo che l’eventuale pioggia scorresse senza bagnare le preziose spighe in attesa dell’arrivo della trebbiatrice.

Adolfo raccontava che fino a non molti anni prima si trebbiava a mano con la preda, una lastra di arenaria di forma triangolare, con scanalature sul lato interno e un foro al vertice. La pietra pesantissima veniva trascinata dalle vacche sopra i covoni di grano sparsi sull’aia che  veniva “imbuvinà” vale a dire cosparsa qualche giorno prima con il letame impastato nell’acqua che seccando formava una specie di rivestimento che andava a coprire la polvere ed i buchi e impediva la perdita dei chicchi.

L’Elide subito dopo sposata era stata coinvolta anche lei nel lavoro della mietitura, non aveva mai preso un sagguel in mano e fu Adolfo che con santa pazienza le insegnò come fare: “Elide dovete  piegarvi con la schiena, tenete le gambe un po’ divaricate.. no, no non dovete accucciarvi giù, fareste più fatica! Ecco ora avvicinate un po’ di steli con il falcetto e stringeteli con la mano libera piegandoli un po’, ecco così… ed ora lasciate scivolare il filo del falcetto sulla paglia dal manico verso la punta.. è semplice” “Si… forse per voi che lo avete fatto sin da bambini!” rispose Elide che cercò di mettervi tutta la buona volontà possibile, ma la sua fila rimaneva sempre  più indietro rispetto agli  altri e si ritrovò bene presto sudata, con la testa che le doleva per il caldo e con le braccia e le gambe sanguinanti perché graffiate dalle stoppie.

Alla fine di quella giornata Amerigo constatò che decisamente l’Elide era poco adatta a sopportare quella fatica e che sarebbe stata molto più utile a portare l’acqua, il vino e il mangiare o al limite a guidare le vacche con il carro.

I primi giorni di luglio di quell’anno  Amerigo andò nel campo di grano dove svettava in mezzo la croce piantata il tre di maggio, appunto detto di Santa Croce, a protezione del raccolto.

Raccolse una o due spighe e le sfregò sul palmo della mano, il chicco biondo di frumento era completamente fatto, ma non del tutto maturo: si poteva iniziare a mietere perché se fosse stato completamente maturo sarebbe uscito dalla spiga durante la raccolta ed il trasporto.

Tornò a casa e disse che si poteva iniziare a mietere e disse a Berto di passare voce ai Fedeli, probabilmente il loro grano era ancora più indietro essendo i campi più in alto e se loro venivano a dare una mano il piacere sarebbe stato contraccambiato. (p.2)

As baräten agli over” disse a Berto, perché nei tempi in cui il denaro circolava poco, usava scambiarsi le giornate di lavoro.

Nei seguenti giorni si iniziò a mietere. Al mattino del primo giorno la Iolanda si presentò indossando, a differenze delle altre donne che avrebbero lavorato assieme a lei,  un robusto paio di pantaloni, una camicia con le maniche lunghe e i bottoni che saltavano dalle asole  per la pressione esercitate dalle enormi tette, un gran cappello di paglia e il suo “segguel” personale che si era portato dalla casa paterna, caricata a molla e impaziente di iniziare il lavoro.

L’Elide era stata dispensata trovando tutti d’accordo, anche la Cesira che sentenziò: “Dôna da tatta, zâpa da biatta e vâca da vidèl, int’al camp an’i purtèr” e venne incaricata del compito di portare verso le nove giù nel campo pane e formaggio e beveraggi per la colazione e il pranzo, il carro con le bestie per caricare i covoni e occuparsi degli altri lavori attorno a casa, Adolfo sarebbe andato su per l’attaccatura delle bestie al bròz.

Quando il nonno prendeva fuori la coppia dei buoi dalla stalla per attaccarli al carro la Brigida si esaltava come non poco, a parte il fatto che seguiva Adolfo come un’ombra ovunque andasse e ascoltava attentissima quello che le raccontava.

Con la nonna Cesira legava di meno, però l’accompagnava volentieri a raccogliere le uova, a dare da mangiare ai conigli e al maiale e le piaceva molto vederla mungere seduta nel seggiolino con la testa appoggiata al fianco della mucca e quando riportava in cucina il secchio di latte schiumoso, si divertiva con un ditino a scoppiare le bolle in superficie.

Le piaceva anche vedere la nonna fare il formaggio e la ricotta, ma per il nonno Adolfo nutriva una autentica venerazione.

Amava particolarmente accompagnarlo nella stalla, si sedeva su un balino di fieno e lo osservava mentre raccoglieva il letame dagli scolatoi, cambiava la paglia nelle lettiere, riempiva di fieno profumato le mangiatoie e le mucche iniziavano a masticare tirando fuori la lunga e ruvida lingua, scuotendo le grosse teste e dimenando la coda per scacciare le mosche. Se c’era poi un vitellino non si conteneva, voleva toccarlo accarezzarlo e quando il nonno lo slegava e la bestiola correva dalla mamma e si attaccava vorace alle mammelle gonfie di latte dando grande testate lo guardava e diceva: “Poeino, tanta fame!”, finito di rigovernare guardava le mucche si voltava verso il nonno e soddisfatta affermava: “Bene, a potto!”, una volta invece guardò un po’ severa Adolfo, scosse il ditino e lo sgridò: “No, no sete …acca” e il nonno: “Un âtum … sto andando a riempire i secchi!”. Di una cosa era certo Adolfo, se la Brigida era soddisfatta del lavoro svolto senza alcun dubbio glielo avevano detto le sue mucche.

I mietitori sgobbarono curvi sotto il sole a picco, sudando come dannati, ma anche l’Elide non stette certo con le mani in mano e ai lavori abituali si (p.3) aggiunsero anche gli avanti e indietro nel campo a portare da mangiare e da bere. Quando nel pomeriggio venne portato giù il carro per caricare i covoni fatti in quella giornata andò anche la Brigida, davanti alle mucche ci doveva stare uno che le faceva spostare mano a mano che venivano caricati i covoni disseminati lungo il campo. Questo compito spettava all’Elide, di fianco aveva la Brigida che ad un certo punto volle tenere lei le corde attaccate alla “murdeccia” delle bestie. “Sei troppo piccola Brigida, le mucche non ti danno retta!”, “Io, io  mucca bella e bóna” e non ci fu niente da fare, l’Elide le mise nelle manine la fine della corda e lei la tenne stretta un po’ più in alto. Amerigo che stava caricando i covoni la richiamò: “Elide sta ben attenta alla Brigida, è troppo piccola per stare davanti alle bestie!”, Adolfo da dietro lo rassicurò: “Stà tranquèll Merigo, äl bîsti cgnóssen cla patoza méi ‘d tè e mè méss insàmm, l’è semper  int la stâla” e fu così che la Brigida, orgogliosissima con le corde in mano, ascoltò per un po’ i comandi secchi che l’Elide diceva per far muovere le bestie: “Giè” per andare avanti “Ao” per fermarle, ma si vede che non le piacevano per cui ad un certo punto sua madre si accorse che la bambina sottovoce usava un suo personale vocabolario diciamo dal tono più gentile e che le mucche obbedivano  a lei, all’Elide non rimase che cercare di sincronizzare i segnali tradizionali a quelli personalizzati della Brigida.

Finita la mietitura venne il giorno della battitura, occorreva aspettare l’arrivo della trebbiatrice che faceva il giro dei diversi poderi del borgo per quella attività.

Una mattina si sentì in lontananza il rumore del trattore a testa calda che lungo la strada si avvicinava al podere dei Veggetti  trainando una lunga carovana composta dalla trebbia, da varie scale e dal un carretto dei lubrificanti e carburanti.

Arrivò nell’aia occupata in parte dalle biche di forma parallelepipedo con grandi spioventi e venne montata.

Per la Brigida era la prima trebbiatura a cui assisteva con cognizione di causa, in quanto l’estate precedente era ancora troppo piccola e quindi osservò attenta quel marchingegno enorme che stavano allestendo tutti quegli uomini: una grande cassa di legno, montata su un carro a quattro ruote della lunghezza di circa sei o sette metri di un brillante colore arancione. Dai lati sporgevano degli assi sui quali erano montate delle pulegge e il tutto era azionato dal motore del trattore che attraverso una cinghia di trasmissione si collegava con la trebbia e metteva in movimento gli ingranaggi.

Quando si iniziò a trebbiare il rumore provocato dal battito frenetico del trattore e dal rombo cupo della trebbiatrice che inghiottiva i covoni di grano oltre al polverone sollevato dalla paglia  e dalla pula sputata fuori che cresceva in altezza formando alti pagliai in un primo momento la spaventarono non poco perché era ben difficile rimanere indifferenti ad un tale frastuono, perciò la bambina scappò in casa piangendo e si nascose sotto la tavola. (p.4)

Fu raggiunta da Fufi che le si mise seduto davanti e iniziò a fare strani miagolii, al che la Brigida mise la testa fuori da sotto il tavolo e iniziò ad osservare le facce delle persone attorno, senza alcun dubbio erano felici, si respirava aria di festa, tutti erano molto indaffarati ed impegnati, ma ridevano e scherzavano fra di loro, fuori venivano portati bicchieri, fiaschi di vino e acqua e brazadelle e la mamma la sera prima aveva preparato teglie di lasagne, di patate e verdure e la nonna le aveva portate giù al forno.

Erano venuti giù i Fedeli, i vicini della Bedosta e vide arrivare anche Don Basilio che di fianco alla basculla segnava su un foglio il peso dei diversi sacchi di grano.

Don Basilio tutto sommato rappresentava il padrone, perché i Veggetti erano a mezzadria in un podere della Curia e quindi volenti o nolenti una parte del raccolto  andava alla proprietà.

L’Elide questo aspetto qui non lo digeriva affatto e le sembrava una gran ingiustizia nei confronti di chi si spaccava la schiena tutto l’anno per far rendere il podere.

Adolfo le raccontò che alcuni contadini usavano degli stratagemmi per “fregare” il padrone. Uno di questi era che quando si dovevano pesare i sacchi di grano che costituivano la parte del contadino di solito chi portava il sacco era l’uomo più forte della famiglia il quale riusciva a reggere il sacco aperto con tutte le sue forze rimanendo comunque impassibile in modo da posarlo il più leggermente possibile sulla bilancia anche se conteneva più grano del presunto quintale. La Cesira che lo stava ascoltando proruppe in un lapidario: “I rubeven de sò!” .

I Veggetti erano onesti e non si sarebbero mai azzardati, d’altra parte anche Don Basilio non era una carogna e se la famiglia nel corso dell’anno aveva avuto difficoltà non pretendeva nemmeno la metà esatta del raccolto, insomma potevano dirsi fortunati a differenza di quei poveri disgraziati della Famaticcia che in occasione di una trebbiatura il proprietario si accorse del sotterfugio e gli diede il benservito sull’aia e poveracci ebbero difficoltà a trovare un altro podere a mezzadria perché si erano fatti un brutto nome.

La Brigida, evidentemente rassicurata dal gatto, si rasserenerò quasi subito. Alla fine della giornata tutti erano stanchi, sudati e sporchi. Si lavarono alla meglio all’abbeveratoio per poi mangiare tutti assieme sull’aia, arrivò Cornelio con il clarino e nonostante la stanchezza i più giovani trovarono ancora la forza per ballare e per cantare, in special modo quel “sbandern” della Iolanda che non si perse un giro con nessuno, il viso rosso per il tanto sole preso in quelle giornate, scarmigliata con steli di paglia ancora impigliati nei riccioli della permanente, chi la faceva ballare se ne approfittava stringendola un po’ troppo per sentire meglio il seno prosperoso, lei magari ridendo protestava che era come non farlo affatto e l’andèva in brôda ed faṡû a sentirsi dire da Vittorio del Poggio: “Iolanda, Iolanda una bèla dôna, l’ha da èser una bèla abrazè e vó  a sî dûra cumpàgn al mèrum! (p.5) As truven sàbet sîra  in te canècc’ dal castagnè ‘d Lippi?” “Mo’ a sî mât? C’sal dîs  po’ Berto?” gli rispose schermendosi la Iolanda e Vittorio cercando di convincerla “Nimporta che ai gegna quèl, l’è ‘na fazenda tra mè e vò! Mé a sån mótt cumpàgn un pàss” .

Gli altri braccianti osservano la scena sghignazzando finché il trattorista sottovoce per non farsi eccessivamente sentire commentò: “Quand l é avêrt un bûś int la zèda, tótt i vôlen pasèr”.

Zert che la Iolanda con cal dåu tatt la fa resusciter i môrt!” commentò un altro.

Cusa vût ch’av dégga .. par mè i én trop grand!” osservò  Żanén del Corniolo.

Tutti si voltarono a guardarlo “Mò dìt da bòn o da burla? T è un bèl da dîr té, mò se una dòna la n à brîśa un bèl manóbbri dal gósst, tótt al rèst an cånta gnént!” decretò il trattorista mettendo fine alla discussione.

La stanchezza poi prese definitivamente il sopravvento e tutti rientrarono alle loro abitazioni, anche perché i giorni seguenti i Veggetti avrebbero restituito il favore delle giornate di lavoro ai Fedeli e al podere della Bedosta, insomma si prospettava un periodo intenso di attività, ma quell’anno fortunatamente appagante per il risultato del raccolto.

E venne quel sabato…

continua…

Rita Ciampichetti, 2024

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