Giusy Turrini – Fondamenta di vita e lezioni di natura: Nei miei primordiali ricordi è ancora ben impressa la mietitura
2024/08/06, Labante – Castel d’Aiano – Accogliendo il nostro invito e rialacciandosi alla Festa della trebbiatura del grano di Labante, Giusy ci invia tutt’altro che un suo modesto scritto sulla mietitura a mano degli anni ’50.
Lo dedico agli antichi mestieri – scrive Giusy – che sono stati, per tanti di noi oggi nel declivio degli anni, fondamenta di vita e lezioni di natura.
LA MIETITURA DEL GRANO A MANO (anni ’50)
Nei miei primordiali ricordi è ancora ben impressa la mietitura manuale del grano: un pugno di spighe alla base strette in una mano, nell’altra un falcetto ricurvo, “seghel” precedentemente affilato con il martello sull’incudine, abbracciava gli steli e poi, con un gesto deciso ed esperto, a riprese veloci, alla base venivano recisi.
Il pugno di spighe veniva riposto e composto in mucchietti ordinati che il sole finiva di seccare e asciugare dall’eventuale rugiada, i piccoli fasci, detti “manvee” (ricordo che son montesina) o “manvelli” in un dialetto italianizzato, venivano poi riuniti formando i covoni. Ogni covone veniva legato con una “stropla” questa era un giovane virgulto di castagno, un pollone ancora non troppo legnoso che si torceva facilmente facendone un legaccio senza che si troncasse. I covoni a sua volta venivano accatastati in piccoli mucchi da noi chiamati “pignoni”. I pignoni erano composti da mani esperte che sapevano mettere i covoni in modo che le spighe rimanessero all’interno così che, anche se fosse piovuto, non si sarebbero bagnate. Mentre i “grandi” provvedevano alla raccolta dei covoni il compito dei bambini (a quei tempi ognuno aveva il proprio dovere in base alle capacità) era quello di gironzolare nel campo in cerca di quelle spighe che erano sfuggite e rimaste abbandonate al suolo, se ne facevano dei mazzi ben composti come fossero mazzi di fiori per poi legarli insieme e formare, grande o piccolo che fosse, un altro covone. I piccoli venivano invogliati dalla promessa che più i mazzi di spighe era grande e più sarebbero state grandi le fette di ciambella “la brazadela” guadagnata e ricavata da quel grano raccolto come fosse un bene aggiunto.
In un secondo tempo, quando la mietitura del campo intero era terminata, i covoni venivano trasportati, su di un carro trainato dalle mucche, nel cortile di casa dove venivano sistemati in un grande mucchio chiamato “meda” oppure “mòla” (la diversità dipende dal gergo dialettale che cambia da un paese all’altro). Nel grande mucchio i covoni venivano composti ad arte, da abili mani, in modo che l’eventuale pioggia potesse scivolare via senza entrare a bagnare il grano. Vedere la “mòla nell’aia era il preludio dell’attesa e conviviale trebbiatura di cui magari ne parlerò più avanti. Ora vorrei soffermarmi un po’ sul lavoro effettivo della mietitura poiché, riassunto come sopra, sembra assai facile, ma i disagi a volte erano veramente pesanti. Si lavorava curvi, sotto il sole cocente, noi ragazze portavamo in testa cappelli dalla larga tesa “la capela” per evitare che il sole ci bruciasse il viso procurandoci inestetiche chiazze spelacchiate e pruriginose, dialettalmente chiamate “voladghe”. E chi le conosceva a quei tempi le creme protettive? Pure con tanto caldo si preferiva lavorare con le maniche lunghe perché riparavano dallo sfregamento con le spighe, dalle fastidiose pagliuzze e resche che con il sudore si appiccicavano ovunque provocando un gran fastidio; altra nota dolente erano le gambe: allora noi donne non portavamo i pantaloni e le gambe erano sempre cosparse di sgorbi, di graffi inevitabilmente procurati dagli steli grossi e ribelli che punzecchiavano qua e là.
Ogni tanto, seduti all’ombra di un albero al margine del campo, si faceva una molto desiderata pausa: arrivavano i piccoli della famiglia a portare un fiasco d’acqua di fonte e una casereccia merenda che spesso consisteva in fette di pane fatto in casa, macchiate con vino rosso e acqua, addolcite con un po’ di zucchero sparso sopra, oppure c’era pane e formaggio, quel formaggio casalingo di cui si è perso il sapore e la cultura ma non il ricordo, ora più caro di allora perché allora non ci si dava il giusto valore: quello c’era e quello si mangiava, era un sapore buono ma abituale, ora invece quel sapore è rimpianto ed introvabile.
Rievocazione storica; Mietitura meccanica a Labante
Quelle pause erano preziose, in perfetta simbiosi con la natura: ristorati dal pane, dall’acqua fresca e dall’ombra spesso si godeva anche di un leggero e rinfrescante soffio d’aria e, quando questo si rafforzava e diventava un lieve venticello, se ne sentiva il frusciare tra le spighe che ondeggiavano come un mare dorato e insieme ci si sentiva cullati e immersi in uno stretto rapporto con la natura che ci sapeva regalare uniche emozioni, che ci inondava del profumo del grano maturo, quel grano che sarebbe diventato quel pane fragrante che ci sfamava e gratificava.
Ma poi ben presto si riprendeva il lavoro e veniva in mente quella sacra e veritiera profezia: “…guadagnerai il pane con il sudore della fronte”.
Rievocazione storica; Mietitura meccanica a Labante
Finalmente, negli anni ’60, con l’aiuto di mezzi meccanici, la mietitura del grano divenne più facile…. Ma questo, assieme alla trebbiatura potrà essere un argomento futuro.
Giusy Turrini 2024
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