Rita Ciampichetti – La Brigida, cap.11: Vittorio cercò nervosamente di nascondersi dentro all’essiccatoio, poi iniziò a fare gesti di intesa alla Iolanda
2024/08/26, Vergato – Rita Ciampichetti – La Brigida – Vicende di una famiglia dell’Appennino Bolognese e non solo: Capitolo 11 – Tempo di patate, uva, castagne e funghi
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Quel sabato sera i Veggetti tornarono dopo avere aiutato nella trebbiatura i contadini della Bedosta e arrivati a casa molto stanchi si apprestavano ad andare a dormire dopo avere rigovernato gli animali.
La Iolanda, dopo essersi lavata dalla polvere della giornata, disse che la serata era troppo bella e che prima di andare a letto voleva fare un giro per scaricare la fatica e rinfrescarsi da tutto il calore accumulato, si incamminò quindi per la “cavedagna” nella direzione del castagneto dei Lippi che era il primo che si incontrava.
Nessuno ci fece caso più di tanto, occupati come erano negli ultimi lavori della giornata, tutti tranne Adolfo che uscendo dalla stalla la vide allontanarsi e che decise di seguirla , la Brigida che era con lui naturalmente volle accompagnarlo.
La cavedagna, mano a mano che si avvicinava alla zona boscata, si tramutava in sentiero fino ad inoltrarsi nel castagneto. Davanti alla porta aperta del “scador, una piccola costruzione utilizzata per essiccare le castagne, passeggiava avanti e indietro il bel Vittorio del Poggio che sorrise soddisfatto a trentadue denti quando vide arrivare la Iolanda, per virare dopo qualche secondo l’espressione del viso in una smorfia di delusione profonda quando si accorse che era seguita a distanza da Adolfo con la nipotina.
In un primo momento Vittorio cercò nervosamente di nascondersi dentro all’essiccatoio, poi iniziò a fare gesti di intesa alla Iolanda che naturalmente non abboccò e stava per tendergli le braccia quando rimase bloccata dalle grida della Brigida che alle spalle iniziò a chiamarla: “Gia Dandaaaa! Gia Danda apettaaa!” e fu così che quattro persone si trovarono radunate lì nello spiazzo davanti al scador: la più anziana con sguardo interrogativo, le due più giovani molto imbarazzate e la giovanissima nell’assoluta innocenza che correva felice dietro alle numerose lucciole che danzavano nell’aria.
“Bónasira Vitori, ma c’sa fév a st’ora in te castagnè?” chiese gentilmente Adolfo.
“Bónasira anc a vò Dolfo….emmm …ai êra vgnó a vàdder cum l’ êra méss al scador….” rispose senza convinzione Vittorio
“Ma l’è mia èl voster … l’è al castagnè ‘d Lippi..”
“Se, se l’è vaira, ma a sån drî par fèr un cumpagn e avreva vadder com l’era fât quest què…..” continuò sempre meno convincente il ragazzo
“Mó an’s’sa indóv, n‘avì brîśa de castagnè e an sî gnanc un muradaur!!” affermò Adolfo.
La Iolanda, vedendo il profondo imbarazzo di Vittorio che non sapeva cosa rispondere, pensò bene di venire in aiuto ed esordì affermando un po’ troppo velocemente per essere creduta: “As sèn truvè par ches! Mo guèrda té che rôba, mé an i avrévv mai pinsè Dolfo ‘d védder què a st’ora Vitori dal Pogg!”
“Va là, va là….dèr d intànnder che Crésst l é môrt dal fradd …l è méj lascèr pérder, parché la merda con pió la smesda con pió la pózza! Vò Iolanda l è dimondi méj che turné a cà nos da voster marè. Adio Vitori, bónanòt!” tagliò corto il buon Adolfo, riprese per mano la Brigida che intanto stringeva nel pugno chiuso dell’altra una lucciola e menando davanti sul sentiero la Iolanda girò le spalle a Vittorio che rimase lì “a båcca avêrta” e si incamminò verso casa.
Arrivati la Iolanda senza dire una parola si ritirò di sopra dove si sentiva l’ignaro Berto russare profondamente, la Cesira guardò Adolfo e chiese: “In dóvv si stà?” “A lucciole!” le rispose lui pronto e intanto la Brigida corse dall’Elide che le diede un bicchiere dove mettere dentro il piccolo insetto, lo avrebbe tenuto vicino al lettino per vedere il lumino accendersi e spegnersi. Il nonno chiamò la bimba vicino a sé, la prese sulle ginocchia e facendo cavalluccio le cantò “Lózzla lózzla vén da bàs,ch’at darò dal furmài pàs, at darò una carsinténna, vén da mé, bèla luzlénna”, lei guardò il nonno e ridendo disse: “Nonno gia Danda…gila, gila, gila cacca pussa!” e si strinse il naso con le dita, l’Elide la sentì, si voltò verso Adolfo interrogandolo con lo sguardo, ma lui fece cenno di niente e la questione morì lì.
Adolfo era troppo amante della pace famigliare per avere voglia di scatenare in casa il finimondo, non si era di certo bevuto le arrampicate sugli specchi di Vittorio e della Iolanda, anzi ad un certo momento quell’imbarazzo lo aveva pure divertito, quindi non avrebbe detto nulla a nessuno, si sarebbe limitato a sorvegliare di più i comportamenti di sua nuora rimandando eventuali decisioni se gli atteggiamenti si spingevano oltre al limite della decenza e cadevano nel ridicolo.
Finite le trebbiature si iniziò con la raccolta delle patate, Amerigo sradicò una pianta nata da un pezzo di patata interrato a marzo e si accertò che il tubero fosse giunto a completa maturazione sfregandolo, la buccia era abbastanza dura da non rompersi e quindi si poteva procedere con la raccolta. Anche in questo caso chinati con lo zappa sul terreno a tirarle fuori dalla terra facendo attenzione a non tagliarle, dietro le donne con le cassette che operavano una prima cernita tenendo separate quelle che riportavano i morsi di qualche “topa rugagna”.
Le patate costituivano una derrata importante per l’alimentazione durante il periodo invernale, oltre ad un possibile piccolo introito in denaro in caso di vendita a chi non le produceva.
Il giorno della raccolta delle patate nuove l’Elide decise di utilizzare quelle più piccole e di farle al forno con aglio e rosmarino, mentre con le vecchie dello scorso anno impastò gli gnocchi, quando furono tutti a tavola la Iolanda diede loro la notizia: “A sån inzénta!”, con il garbo che la contraddistingueva la Cesira commentò ridendo: “Èt magnè al mél? Chèga la brasca! Sperèn c’al sia un mâsti!” l’Elide scossando la testa le chiese: “Siamo contenti Iolanda, una nascita dovrebbe sempre essere una gran gioia sia per una femmina che per un maschio e quando nascerebbe il bambino?”, la Iolanda le rispose “A la fén dal mès ‘d merz, se Dio al vôl”, Amerigo ebbe un pensiero gentile nei confronti della cognata considerati quei tempi e le disse: “La mietitura, la trebbiatura e la raccolta delle patate sono concluse, rimangono da fare la vendemmia, le castagne e la preparazione dei terreni per i prossimi raccolti, arare, zappare e seminare, però Iolanda, visto il vostro stato, è meglio che non vi affaticate troppo e quindi se non ve la sentite di venire giù nei campi ci arrangeremo in qualche modo” la Iolanda gli rispose subito: “O mè in cà po’ no! Mej lavurèr all’âria avêrta!” e la Cesira “Mò se anc questa! La nostra Iolanda l’è na sturnèla acsé bàn méssa ch’la n’ha brîśa pòra ‘d gnint e po’ andè contra l’invêren e quand la pânza la dvantarà grôsa, starà pò dàpp a sèder in tla scrâna”.
Tanto fu e non si tornò più sull’argomento perché una volta non si prestava molta attenzione al fatto che una donna aspettasse un bambino, specialmente i primi mesi poiché gli aborti spontanei entro la ventesima settimana erano considerati normali, ma anche dopo lo stato avanzato della gravidanza non esentava la donna dal continuare a svolgere le abituali attività domestiche anche molto faticose. La particolare attenzione dimostrata da Amerigo era dettata dall’esperienza legata alla nascita della Brigida.
Venne il tempo anche della vendemmia, la vigna era piccola, qualche ventina di filari in una sponda esposta a sud-est che Adolfo coltivava più per passione che per rendimento e che dava un quantitativo d’uva bastevole appena per soddisfare il fabbisogno domestico a patto di produrre anche “mèż vén”, “tarzanèl” e “sburgióll”.
Il parsimonioso Adolfo dopo aver spillato il vino dal tino aggiungeva acqua alle graspe e, dopo qualche giorno, spillava il “mèż vén”: un vino poco alcolico che però doveva essere consumato entro l’inverno, aggiungeva poi altra acqua per ottenere il “tarzanèl”, questa operazione la ripeteva tante volte fino a quando le graspe non arrivavano proprio al limite e per ultimo davano un liquido torbido e praticamente privo di alcool chiamato “sburgióll” che si riduceva a bere solo lui, perché il resto della famiglia beveva piuttosto l’acqua del pozzo.
Come ogni mezzadro che si rispetti aveva consegnato due fiaschi del vino prodotto dal podere a Don Basilio affinché lo sentisse prima di dargli la sua parte, ma dopo due giorni arrivò al podere la Giulia con nella sporta i due fiaschi che restituì comunicandogli questa ambasciata da parte del prete: “Don Basilio av ringrâzia, ma al dis che par la Santa Massa l’arziprit ‘d Savegn, sô amîg, ai dà soquànt darnigèni ‘d Pignoletto dàulz cumpagn al mèl, tgnîl bän par vó al vôster vén… par la famèja.. a sî in tant..”.
Adolfo capì che non era stato di suo gradimento ed in prima battuta ne fu contrariato, con tutta la passione che ci metteva a stare dietro a quella vigna, però riflettendo non poteva che convenire con il prete che in effetti il vino ottenuto l’era un po’ “trôp bróssc”.
L’Elide approfittò del mosto per fare i sughi d’uva che piacevano a tutti e per preparare sia la “saba” che il “savor”, prodotti non troppo conosciute in quella parte dell’Appennino, ma che lei sapeva preparare perché la signora dalla quale era a servizio, di origini romagnole, le aveva insegnato a fare.
La “saba” lo ricavava dal mosto appena pronto facendolo bollire fino a ricavarne uno sciroppo scuro simile al miele, se al mosto cotto aggiungeva mele, pere, mele cotogne, uva passa, fichi secchi, noci, buccia di arancia o limone e portandolo a bollore lo riduceva a marmellata otteneva il “savor” che avrebbe poi utilizzato per la preparazione dei dolci di Natale.
Dopo che la Cesira le aveva lasciato campo libero in cucina all’Elide piaceva molto dedicarsi alla preparazione di conserve utilizzando i prodotti dell’orto e del frutteto quando la produzione era al massimo. Era orgogliosa della cantina dove ora oltre ai salumi appesi, alla credenzina con i formaggi e alle casse di mele, pere e noci, facevano bella mostra di sé ben allineati e ordinati sulle mensole montate da Amerigo i vasetti di marmellate, giardiniere e frutta sciroppata.
Però la coltura a cui si teneva di più in quell’angolo dell’Appennino e che aveva storicamente sempre avuto una importanza vitale per l’alimentazione dei montanari era quella della castagna.
Anche il podere dei Veggetti, come gli altri, oltre al campo, a un piccolo bosco per la legna aveva un terreno destinato a castagneto che veniva tenuto come un giardino, rigorosamente pulito in modo da facilitare la raccolta del prezioso frutto.
Era talmente importante il raccolto delle castagne che sin dal giorno di ferragosto Adolfo iniziava a declamare proverbi che si riferivano a quell’argomento “Par Santa Maria la castagna l’as cria, e par l’ot l’è grôsa com un bdòc”, poi arrivava la la mattina del 14 settembre e guardava per aria dicendo: “Se piòv e dé ed Senta Cròs tant castagn e poc nòs”, comunque già alla fine di settembre si andava a fare le ultime operazioni di pulizia nel castagneto rastrellando in fondo ai pendii i rimasugli di sterpi e ricci vecchi in modo da formare una sorta di barriera affinché nemmeno un riccio rotolasse andando magari a finire in un’altra proprietà. Occorreva poi mettere a posto l’essiccatoio dove le castagne raccolte sarebbero state messe ad seccare su un graticcio di pali sottili sotto cui un fuoco continuo. avrebbe bruciato lentamente e continuamente per almeno una quarantina di giorni.
“Par San Simon o la pêrdga o l’ baston”, entro la fine di ottobre la raccolta doveva essere fatta perché se i ricci non si erano aperti e non avevano fatto cadere le castagna occorreva “sbroccare” gli alberi.
“Perché?” domandò l’Elide a Adolfo che le rispose “Se i ricci rimangono chiusi e arriva la nebbia di novembre potrebbe fare marcire la castagna dentro. Ma lo sai tu perché dentro ad un riccio ce ne sono di solito tre?” e alla risposta negativa della nuora continuò: “Una castagna è per il padrone, una è per il contadino e una è per il povero, in realtà non è così perché pensa che prima del ’30 c’era la regola “al tre l’onna”, vale dire una al mezzadro e due al padrone, dopo il ’30 invece si fa a metà quindi vedi che per chi non ha castagneto e va a spigolare rimane ben poco”.
Alla preparazione del castagneto per la raccolta parteciparono tutti, come tutti parteciparono a turno alla raccolta, cercando di tenere ben separati i marroni dalle pastonesi. Gli alberi di marroni necessitavano di più cure e i sapienti innesti eseguiti da Adolfo assicuravano, sempre tempo permettendo, di raccoglierne in quantità per poterne anche vendere, tutte le altre venivano essiccate per ricavarne la farina che avrebbe assicurato la sopravvivenza all’inverno. Infatti si diceva che con due quintali di farina una famiglia media avrebbe mangiato per un anno riuscendo a preparare una varietà di cibo con l’aggiunta di solo acqua e sale. Appena raccolte si arrostiscono per fare le “frugiate” o si lessano per fare i “balotti” o le “mondine”, con la farina pressata nelle madia si fa la polenta, i “manfeti”, le frittelle, i “ciacci”, le “mistocche” , si tiene poi da parte un sacchetto di castagne secche per darle come caramelle ai bambini o per bollirle con qualche foglia di alloro che dà un sapore buonissimo al denso e dolce brodo color nocciola prodotto.
Verso la fine di ottobre la raccolta era finita e Adolfo declamò il proverbio finale: “Par San Lócca chi ha di marón ai plócca e chi n’ha brîsa a se splócca la camîsa”, i marroni erano stati venduti al mercante che passava e le castagne erano già state tutte stese sul caniccio dell’essiccatoio ed un lento e fumoso fuoco acceso sotto, a turno avrebbero provveduto ad alimentarlo per almeno quaranta giorni.
Mentre per l’uva ed il relativo vino prodotto Don Basilio lasciava generosamente la sua parte per le risapute ragioni, per quanto riguardava le castagne e la farina non transigeva: parti uguali di castagne, marroni e farina per i contadini che avevano lavorato e per la proprietà che aveva guardato.
La Iolanda che iniziava già a sentirsi parte della famiglia disse: “Admand a mi pèder se pos andèr a a spiglèr in te sô castagnè e c’am daga la mi pèrt ‘d farénna, lè Don Basilio an i zentra brîsa e acsè aumentèn la scòrta”.
Tale proposta fu accolta con entusiasmo da tutti e la quotazione della Iolanda salì di almeno dieci punti nella tabella di considerazione della Cesira.
Quel periodo dell’anno tra la fine dell’estate e l’inizio della stagione autunnale era particolarmente atteso dalla Cesira anche per un’altra ragione.
Se c’erano state ottimali condizione climatiche, vale a dire né troppo sole né troppa acqua e soprattuto assenza di vento, si sarebbe creata quella giusta umidità nel bosco che permetteva al terreno ancora caldo, sufficientemente bagnato ma non zuppo di far nascere i funghi ed in particolare quelli ritenuti più pregiati, i “cuzzlot”.
La Cesira era la più furba e capace “fungaiola” di quei posti, indiscutabilmente riconosciuta anche dai più vecchi ed esperti che facendo tacere l’orgoglio spesso si rivolgevano a lei per un parere: “Csa giv Cesira is càten? In te bòsc o in te castagnè? L à piovó tótta stmèna …e la lóńna l’è nôva..”
Lei rispondeva nel modo più evasivo possibile: “Boooh…. bèla dmânda… pol eser che Jusfèn de Palaz al sà, dmandè a lò parchè a sènter sòul ‘na campena, an s’impèra gnint!”
Di solito andavano via scossando la testa delusi perché tutti lo sapevano che la Cesira sembrava che odorasse nell’aria l’inimitabile profumo di quelle buone “muffe” che iniziavano a lavorare sotto terra ed allora poteva esserci anche il Papa in visita a casa sua che trascorsi alcuni giorni, dopo aver controllato su Barbanera com’era messa la luna, spariva da casa armata di bastone e cesto.
Non stava via molto perché andava a colpo sicuro in bollate che conosceva solo lei, ma se nascevano si poteva essere certi che tornava a casa con un ricco bottino.
Avevano cercato di seguirla di nascosto, ma la Cesira sapeva depistare tutti meglio di una spia addestrata dal Mossad e l’aspetto più incredibile è che non rivelava l’ubicazione delle sue “bollate” nemmeno ai figli.
“Mama gì in dóvv a l’è cla buleda ‘d cuzzlott négher!”, la supplicava Berto
“Mò gnanc pr insonni! Tla cat da par tè!” rispondeva secca, facendo chiaramente intendere che nemmeno sotto tortura lo avrebbe detto.
I porcini più vecchi o bacati li affettava e poi li metteva a seccare per utilizzarli d’inverno, quelli più sani e belli li componeva in un canestro rivestito di fresche foglie di castagno o di felci e li andava a vendere. Il ricavato complessivo dalla vendita di uova e funghi le aveva permesso di mettere assieme un suo gruzzoletto personale da cui attingere, a dire il vero poco spesso, per togliersi qualche “voglino”.
Ritornò il mese di novembre con le sue nebbie, a volte di sera si trovavano nell’essiccatoio con anche alcuni vicini a fare una partita a carte, a mangiare qualche frugiata, mentre le donne sferruzzavano le solette di lana per i calzettoni.
Quel ritrovarsi tra vicini e parenti si chiamava “andèr a veja”, un’usanza ormai caduta nell’oblio con l’avvento della televisione e di altri passatempi. Si praticava durante i mesi autunnali ed invernali e solitamente in campagna i luoghi di raduno erano la stalla o gli scador durante il periodo di essicazione delle castagne per lo sfruttamento del diverso tipo di calore prodotto o dagli animali o dal fuoco.
Gli uomini aggiustavano gli attrezzi, intrecciavano i canestri o giocavano a carte, le donne lavoravano ai ferri o filavano e i bambini ascoltavano le storie raccontate dalle persone più anziane fino a quando qualcuno iniziava a sbadigliare ed allora considerato che “al sbadâc’an vól ingân: o sàid, o sann, o fâm, o quèlch ètér malân: o malincunî, o catîva cumpagnî o vojja d’andèr vî” augurando la buonanotte ognuno tornava alla propria abitazione.
All’Elide non piaceva molto andare a veglia all’essicatoio, il fumo ristagnava ad altezza d’uomo e dopo qualche minuto i suoi occhi chiari iniziavano a lacrimare copiosamente e poi detestava quell’odore di “caniccio” che rimaneva incollato a vestiti e capelli e quindi il più delle volte preferiva starsene a casa a rammendare con la sua macchina da cucire gli strappi fatti negli abiti da lavoro o a confezionare qualcosa di nuovo.
Alla Brigida invece piaceva moltissimo, forse perché alla sua altezza il fumo era meno denso e non le dava fastidio e poi perché adorava sentire raccontare le storie, quando si annoiava perché parlavano di cose da grandi giocava prendendo un bastoncino, lo accostava alle braci del fuoco fino a quando non si accendeva sulla punta una piccola brace e poi lo agitava nel buio, fino a quando un adulto non se ne accorgeva e la sgridava.
Sotto quel lento e continuo fuoco le castagne perdevano i due terzi del loro peso, con tre sacchi di prodotto fresco si otteneva un sacco di castagne secche che occorreva sgusciare mescolandole con una stanga di legno alla cui estremità erano infissi puntoni di ferro. Poi si portavano ad uno dei tanti mulini dove venivano macinate fino a produrre la farina.
La Cesira pressava la profumata farina nella madia fino a quando non diventava solida come un mattone di calce e brontolava se qualcuno, approfittando della apertura della madia, arraffava un magalòt di farina dolce e se lo metteva in bocca. Alla Brigida piacevano moltissimo e solitamente ci pensava il nonno a tirare fuori dalla madia quei grumi pressati e a darglieli di nascosto dalla nonna.
Di dolci e caramelle in quegli anni ne circolavano pochi come pure non era certamente una consuetudine quella di festeggiare i compleanni, però non dimentichiamo che l’Elide si era portata dietro abitudini diverse e quindi preparò un semplice dolce per festeggiare il compimento dei due anni della Brigida.
“Stà mò da vaddar anc questa! La fèsta ‘d conplean par un scandcl ‘d dòu an!” sbottò la Cesira alla notizia.
“Parchè no? Na fèsta l’è semper un bel quèl! A j è na nojja da murîr in sta cà adèsa! Fala pûr Elide, mè a sån pròpi cuntänta! Invidèn la mi famèja, al mi surcli, Cornelio col só claren acsè a fèn un bâl” controbatté la Iolanda e subito a quest’ultima proposta la Cesira replicò: ” Al bâl l’è bèl a cà di ètér”.
Il compleanno della Brigida fu festeggiato senza ballo, furono invitati i Fedeli e soprattutto la Natalina che in quei giorni che ormai sembravano così lontani aveva fatto tanto per assicurarle la possibilità di festeggiare i futuri compleanni e poi perché era la sua madrina.
E venne il mese di Dicembre e la festa dal ninén prémma ‘d Nadèl
….continua
Rita Ciampichetti, 2024
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