Rita Ciampichetti – La Brigida, cap.12: Severino Carboni di Castelnuovo era il norcino specializzato
2024/08/26, Vergato – Rita Ciampichetti – La Brigida – Vicende di una famiglia dell’Appennino Bolognese e non solo: Capitolo 12 – La festa dal ninén …ma non per la Brigida
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Era incominciato il periodo invernale e le attività agricole erano rallentate, ma non certo cessate, erano stati abbandonati i ritmi frenetici dell’estate, ma occorreva preparare nel migliore dei modi il terreno e le piante per il lungo riposo in attesa dell’arrivo della primavera e quindi concimare i campi e fare i trattamenti contro eventuali malattie delle piante, quando poi gli alberi da frutto avevano completamente perso le foglie bisognava procedere con la potatura delle viti, dei meli e dei peri per eliminare i rami secchi e malati e favorire così la futura formazione delle gemme che avrebbero prodotto prima i fiori e dopo i frutti. I rami tagliati sarebbero stati affastellati secondo la stessa lunghezza, legati in fascine che una volta ben secche sarebbero poi state utilizzate per riscaldare il forno.
Se il tempo era brutto si approfittava per aggiustare gli attrezzi rovinati o per lavori di falegnameria, Adolfo si dilettava ad intrecciare i vimini che aveva tenuto a bagno nel fosso per renderli più flessibili e per facilitare la pulitura dalla corteccia per fare cesti, panieri di diverse misure. A volte se ne caricava qualcuno sulle spalle e scendeva in paese il giorno di mercato per venderli e così raggranellava qualche centinaia di lire per comprare il tabacco della pipa o per bersi un bicchiere all’osteria.
Gli animali da stalla e da cortile erano sempre da custodire, le galline avevano rallentato paurosamente nella produzione delle uova e per fare la sfoglia l’Elide usava quelle che aveva conservato a bagno nella calce dentro ad un vaso durante il periodo di abbondanza. L’orto regalava ancora qualche verdura: i cavoli che però dovevano essere raccolti prima di prendere la gelata, qualche pianta di radicchio che la Cesira aveva protetto con le foglie secche, mentre gli agli, le cipolle e gli scalogni piantati in ottobre dormivano sotto terra in attesa della primavera.
Solitamente alla sera dopo cena Berto, se non era fuori a veglia da qualche vicino con la Iolanda, accendeva la radio regalata da Carlino per sentire la musica e soprattutto per seguire i radiodrammi che erano adattamenti radiofonici di opere teatrali, ad Amerigo e all’Elide oltre a “Rosso e Nero” piaceva molto ascoltare “Viaggio in Italia” in cui uno scrittore di nome Guido Piovene raccontava le cose viste durante il viaggio che stava compiendo dal nord al sud in quell’Italia del dopoguerra percorrendo strade e visitando città e paesi.
Ascoltando quello che raccontava quel “reporter di viaggio” Amerigo, che si e no si era recato un paio di volte a Bologna in tutta la sua vita, ebbe nuovamente conferma dei grandi mutamenti che erano in corso e soprattutto della loro velocità nel processo di cambiamento.
Anche se quei posti gli sembravano così lontani rispetto al piccolo mondo del suo borgo sentiva maturare in lui una rassegnata preoccupazione che prima o poi lo sconvolgimento in atto li avrebbe raggiunti decretando comunque la fine del modo di vivere a cui erano abituati.
Una mattina di dicembre Adolfo scese in cucina fregandosi le mani particolarmente di buon umore: “Giàmmber l’è un mais fradd e birichèn, mo as fa fèsta col ninén e po’ ai nâs Gesò Banbén!”, disse andandosi a sedere vicino al fuoco del camino, mentre l’Elide gli preparava una tazza di latte e caffè d’orzo per la colazione.
“Viva … fetta Nino! Mama fa totta!” esclamò la Brigida battendo le manine.
L’Elide alzò gli occhi al cielo, Adolfo la guardò perplesso, “Proprio una bella torta gli faremo al tuo Nino Brigida, altro che la broda che gli prepara tua nonna!” disse ridendo alla bimba la zia Iolanda la cui gravidanza si era particolarmente evidenziata con una pancia di notevoli dimensioni.
“Piò grâs d’acsè…. al ninén l’è bèle prànt, Dolfo bsogna sénter da Severén ‘d Castelnov quand al po’ vgnir” disse la Cesira rivolgendosi al marito.
Severino Carboni di Castelnuovo era il norcino specializzato per la macellazione del maiale, figura indispensabile quando nella famiglia non c’era nessuno che era in grado o se la sentiva di procedere con maestria ad una esecuzione veloce e precisa dello scannamento in modo da fare soffrire il meno possibile il condannato.
A quei tempi ogni famiglia di contadini allevava con cura uno o più maiali. Venivano comprati lattonzoli e tenuti chiusi nello “stalletto” o in uno spazio ristretto in modo che non si potessero muovere molto, venivano messi all’ingrasso e se l’animale invece di ingrassare dimagriva era una vera e propria disgrazia oltre che un disonore per l’arzdora che lo curava.
La Brigida vedeva con quanta cura la nonna preparava la pappa per il loro maiale che lei chiamava affettuosamente Nino: le stoviglie e i piatti non venivano lavati con il detersivo, ma in un paiolo con l’acqua bollente in modo da togliere tutti i residui di unto e di grasso, poi in quella broda si aggiungevano le bucce delle patate e della frutta, i resti delle verdure, i pochi avanzi alimentari e per ultimo una bella dose di crusca, si mescolava il tutto e poi lo si portava al “ninino”. La Brigida voleva sempre accompagnare la nonna e aspettava che l’animale uscisse grufolando dalla gioia dallo stalletto e tuffasse quel bel musetto roseo nella broda che la Cesira aveva versato nel truogolo e iniziasse a mangiare con ingordigia sempre emettendo grugniti di soddisfazione e bolle dai buchini del naso. “Bóna pappa Nino?” gli domandava la bimba e probabilmente il maiale gliene dava conferma con i grugniti perché la Brigida si voltava verso la nonna e annuendo le diceva: “Nonna pace tua pappa Nino!” e la Cesira: “Par dîr quall ch’è vaira al ninein al mâgna incôsa, l’ha semper fâm!”.
Doveva ingrassare un bel po’ il maiale perché, anche se non si diceva, le famiglie facevano a gara per avere alla fine dell’anno il suino più grasso e pasciuto e il suo peso si sarebbe saputo solo al momento del suo sacrificio, il giorno della macellazione perché “marcant e porz is pesen dapp môrt”.
Il rito del giorno in cui si “disfaceva” il maiale era, almeno per quanto riguarda la prima ed inevitabile parte dell’uccisione della povera bestia, abbastanza cruento.
Anche la Cesira che in quanto a “cotica”, sempre per rimanere in tema, non scherzava, nel momento in cui Adolfo e Berto andavano nello stalletto e trascivano a forza fuori il povero animale che strillava ed urlava come impazzito, non resisteva e si andava a nascondere nella stalla, tappandosi le orecchie per non sentire quei gridi di puro terrore che sovrastavano le bestemmie di Berto e Adolfo che diceva: “Par fèrel andèr dänter int al stalàtt as tuché d tirèrel pr äli uràcc’, mo par tirèrerl fòra as tuché d tirèrel anc par la cô”.
Tutto sommato quel “ninino” lo aveva allevato con tutta la cura possibile fino da piccolino, lo aveva tenuto pulito e lui la ricompensava con grugniti di felicità appena la vedeva. Doveva aspettare che Severino con uno scannino vibrasse il colpo che avrebbe squarciato la gola per ricomporsi e andare fuori con la pentola per raccogliere il sangue fumante che sgorgava assieme alla vita del generoso porcello che era stato issato con una carrucola alla trave del magazzino in modo da fare scolare tutto il sangue.
Dopo di che si doveva procedere con il meticoloso lavoro di ripulitura dallo sporco con acqua bollente e con coltelli affilati alle operazioni di spellatura e rasatura del pelo.
Una volta lavato e rasato per bene Severino aiutato dagli altri uomini avrebbe tagliato la pancia, estratto tutte le interiora e diviso la carcassa in due mezzane.
Non veniva buttato via nulla: le budella e la vescica che sarebbero state usate qualche giorno dopo per fare i salumi e per conservare lo strutto venivano lavate benissimo e lasciate a bagno in una bacinella con acqua e aceto.
Poi, pezzo per pezzo il maiale veniva “disfatto” proprio nel significato stretto del termine.
Un grande paiolo sarebbe stato messo sul fuoco e dentro le ossa, la testa con orecchie e lingua, le cartilagini e tutti quei pezzettini di carne cotta sapientemente salata e pepata sarebbe stata insaccata nell’intestino crasso per fare una golosa coppa di testa.
Severino, aiutato da Berto che voleva imparare il mestiere di norcino, avrebbe tagliato e diviso le varie porzioni di carne, macinato, salato, pepato, speziato con aglio e vino e preparato i cotechini con le cotenne, la coda, le cotiche sminuzzate e imbudellati nell’intestino retto, con il filone della schiena e pezzetti di lardo dei gustosi salami, con altri tagli di carne una saporita salsiccia imbudellata nell’intestino tenue.
Era necessario trovare una utilizzazione per tutto e quindi anche i tagli meno pregiati come il cuore, la trippa, la punta dei polmoni, i rognoni, la milza, la parte di gola sanguinolenta dove era stato scannato l’animale sarebbero stati tritati e con l’aggiunta di un po’ di lardo, sale, pepe e vino avrebbero dato origine anche loro ad una salsiccia dal colore scuro “la susézza mata” che però occorreva consumare alla svelta perché non si conservava a lungo.
Con il capocollo, vale a dire il collo del maiale, opportunamente rifilato e messo sotto sale, avrebbero fatto la coppa d’estate, come anche la spalla che con la stagionatura si sarebbe trasformata in un prosciutto più piccolo e saporito rispetto a quelli ricavati dal taglio più pregiato, le cosce posteriori.
Poi c’era la pancetta, la parte anteriore del costato che se il maiale era molto grasso veniva salata e stagionata distesa, ma se, per disgrazia, non era cresciuto molto e quindi risultava più magra, veniva arrotolata.
Parte del lombo e del filetto sarebbero stati conservati freschi per fare il ripieno dei tortellini di Natale.
Importante era la produzione dello strutto, conservato nella vescica del maiale ed appeso in cantina. In quella parte dell’Appennino non c’era l’ulivo e quindi l’olio extravergine di oliva era utilizzato molto raramente. In cucina la faceva da padrone lo strutto che veniva utilizzato per friggere, negli impasti del pane e delle crescentine per renderli morbidi e friabili, nei dolci, per la conservazione dei cibi come la salsiccia. Lo strutto si ricavava dalla fusione del grasso del maiale e durante questo processo alcune parti del grasso rimanevano solide assieme a piccole parti di carne. Dopo una lunga cottura diventavano scure e croccanti, venivano scolate e pressate, recuperando così ancora dello strutto e ottenendo deliziosi ciccioli i “grasò”.
Quando fu deciso il giorno di inizio di tutta l’operazione per “disfare” il maiale, l’Elide andò in crisi profonda.
L’anno prima la Brigida era troppo piccola per rendersi conto della situazione anche se sua mamma ricordava che era stata inquieta tutto il giorno, ma ora che sgambettava ovunque seguendo curiosissima questo o quel famigliare come si poteva fare per impedirle di essere presente allo scempio di Nino con cui, l’Elide ne era più che sicura, la piccola aveva chiacchierato per tutto il periodo di ingrasso?
No, no doveva andarsene via …. ma come fare a dirlo con Amerigo? Decise di parlarne con Adolfo per concordare con lui una scappatoia.
Quella sera lo andò a trovare nella stalla e gli disse: “Adolfo sono preoccupata per la Brigida il giorno in cui ammazzeremo il maiale, pensa che io gli faccia una torta a Nino per festeggiarlo. Non può assolutamente rimanere qui.. vi immaginate quando lo sentirà urlare? Ricordate la tragedia di quando la Cesira ha tirato il collo alle galline per il matrimonio di Berto? “
Adolfo si mise a sedere su un ballino di paglia, si tirò indietro sulla testa il vecchio cappello sformato e rispose: “Avete ragione, ci pensavo pure io. L’unica è chiedere alla Natalina se ve la tiene qualche giorno giù in paese per il tempo che finiamo tutto”
“Ma come faccio a dirlo ad Amerigo? La Brigida non è mai andata via di casa…e se poi trovandosi in un posto che non conosce piange?” replicò l’Elide che non sapeva dove sbattere la testa.
Adolfo in silenzio aspirava dalla pipa e buttava fuori grande volute di fumo e probabilmente i pensieri in testa gli vorticavano alla stessa velocità con cui succhiava il beccuccio, poi si voltò verso l’Elide e le disse: “Dite alla Natalina se può tenere qualche giorno la Brigida da lei, spiegatele che essendosi molto affezionata a Nino avete paura che possa rimanere spaventata, però le chiederete per favore se fa lei la richiesta ad Amerigo che gli dica che è la sua madrina e che vorrebbe averla un po’ per compagnia ora che è più grande così ne approfitterebbe per farla vedere per una visita generale anche al dottore in via di favore, così Amerigo non avrà niente da ridire, si sente troppo obbligato nei confronti della Natalina… cosa ne dite?”
L’Elide concordò che l’espediente poteva funzionare ed il mattino dopo, trovando la scusa che aveva bisogno di comperare qualche scampolo di stoffa all’America stracci, scese in paese ed andò a parlare con la Natalina spiegandole il problema. La Natalina fu ben lieta di fare questo favore, anche perché, essendo sola, tutto sommato era contenta di tenere qualche giorno con sé la Brigida.
La proposta ottenne anche il benestare di Amerigo, all’inizio un po’ titubante essendo la prima volta che si separava dalla figlia, poi decisamente convinto quando l’Elide gli ricordò l’episodio delle galline.
Solo la Cesira ebbe da obiettare: “Cusela sta bèla nova? Pròpi sta stmèna què c’aven da dsfèr al ninén”
Questa volta le rispose a tono l’Elide: “Appunto per questo! Con tutto quello che ci sarà da fare dentro e fuori dalla cucina tra pentole di acqua bollente e coltelli, non la voglio proprio fra i piedi!”.
Adolfo ribadì: “L é dimondi méi acsé, la Brigida la và quelc dè dala Natalina e a sän cuntént tótt”.
La Iolanda non disse nulla perché non stava ascoltando impegnata com’era a leggere l’ultimo numero di Grand Hotel che in quei mesi di rallentamento dei lavori agricoli aveva catturato tutto il suo interesse.
Il giorno dopo l’Elide preparò un fagottino con dentro un cambio di biancheria, Amerigo caricò la Brigida ben avvolta in una coperta sul serbatoio della motocicletta e la portò giù in paese consegnandola tra le braccia di una raggiante Natalina, nessun pianto o “gnola” da parte della bimba che sembrava contentissima di quella novità e curiosa per tutto quello che la circondava, d’altra parte aveva sempre dimostrato un affetto particolare nei confronti della sua madrina che spesso e volentieri, quando era libera dagli impegni della professione, saliva al podere portandole qualche dolce o un piccolo giocattolo.
La bimba ritornò il venerdì entusiasta per tutto quello che aveva fatto con la Natalina in paese, compresa anche la visita dal dottore che l’aveva trovata sana come un pesce, distribuì abbracci e baci con lo schiocco a tutti.
La Brigida si mise poi a giocare con Fufi che miagolava strusciandosele addosso felice per il suo ritorno, l’Elide era all’acquaio sotto la finestra che lavava della patate. In quel momento erano rimaste sole in cucina, all’improvviso la bambina lanciò un grido, si voltò verso la mamma e disse: “Mamma più Nino! Nino via, detto Fufi!”. L’Elide si girò a guardare il gatto che con nonchalance felina seduto impettito sul pavimento stava facendo toeletta leccandosi la zampina e passandola sopra le orecchie, il gatto alzò lo sguardo fissando la donna quasi sfidandola, l’Elide lo fulminò a sua volta con gli occhi. Si asciugò le mani prese la Brigida sulle ginocchia e le spiegò: “Sì è così, Nino non c’è più, perché tutti i maialini quando viene dicembre vanno via per ritornare un’altra volta piccolini nello stalletto e ricominciare a mangiare la broda!”.
Così sui due piedi non seppe trovare migliore spiegazione, anche se ebbe la spiacevole sensazione di essere guardata in malo modo da Fufi e le venne istintivo portare l’indice della mano sulla bocca chiusa facendogli cenno di tacere mentre pensava: “Dio mio … mi metto pure io a parlare con il gatto!”
La Brigida si accontentò della giustificazione datale dalla mamma e corse fuori nell’aia per controllare se nello stalletto fosse per caso ritornato un porcellino piccolo.
Si accontentò…. per quel pomeriggio… perché purtroppo alla sera per cena erano stati cucinati i “fégadett”, quei gustosissimi pezzetti di fegato di maiale avvolti nella loro rete, salati e pepati e arrostiti con una foglia di alloro per dare aroma.
Erano tutti seduti attorno alla tavola a gustare quella delizia assieme a delle belle fette di polenta messe ad arrostire sulla graticola, quando la Iolanda esordì dicendo: “L’è pròpri vera… la chèren ‘ed ninèn l’è tótta bóna, ma st’ fégghet què l’è spezièl, as vadd che Nino l’è stà arlivà comm Dio cmanda! Brava Cesira!”, la Brigida guardò la zia, guardò il piatto, riguardò la zia e indicando con il dito il suo fegatino le chiese: “Nino?”, l’Elide non fece a tempo a dire o fare qualcosa, la Iolanda rispose troppo in fretta: “Certo tesoro, è buono il tuo Nino vero?”, malauguratamente in quel momento la Cesira aveva portato in tavola il piatto dove fumanti, spaccati a metà erano collocati anche gli zampetti del maiale, fu a quel punto che la Brigida scese dalla sedia ed urlando con le braccia alzate scappò dalla porta inseguita dal gatto, da suo nonno e da sua mamma, mentre gli altri restarono con la bocca aperta e le forchette in mano cercando di realizzare cosa era successo.
La trovarono piangente nella stalla, nascosta dietro un ballino di paglia con Fufi accanto e le mucche nelle poste che con le teste abbassate la guardavano mestamente mentre ruminavano.
Adolfo, raggiunto a ruota dall’Elide, entrò nella stalla e vide la Brigida, o meglio vide prima il gatto, che si voltò e li fissò con uno sguardo talmente furente che sembrava dicesse: “Lo sapevo che sarebbe finita così!”.
Il nonno andò a sedersi sopra il ballino di paglia che nascondeva la bambina e disse: “Su Brigida non piangere, dopo Natale compriamo il maialino nuovo e lo chiameremo Nino“ e la Brigida tirando su con il naso: “Noooooo, io voio Nino mio!”, paziente Adolfo con la voce più dolce che poteva le spiegò: “Il porcellino di prima non c’è più, vedi anche il gatto prende i topolini per mangiarli e noi per vivere e diventare grandi mangiamo la ciccia di porcellino, le cocche mangiano il frumento, i conigli mangiano l’erba, le mucche mangiano il fieno e noi mangiamo anche la ciccia di cocca, di coniglio e delle mucche… è per questo che gli diamo la pappa, li curiamo e li teniamo con noi”.
La Brigida ascoltò in silenzio, dopo qualche minuto si alzò dal nascondiglio, tirò ancora su il moccolo che gocciolava dal naso, guardò il nonno e la mamma e urlò con il mento che le tremava, ma con una decisione incredibile: “Io titto sì, cocco sì, lenta sì, fomaggio sì, tatate sì…ciccia noooooooooo!” e furibonda uscì dalla stalla e rientrò in cucina sempre inseguita da Adolfo, dall’Elide e dal gatto.
Fu così che all’età di poco più di due anni in quella stalla la Brigida espresse la sua decisione di diventare in futuro una vegetariana convinta ottenendo peraltro la corale approvazione delle mucche presenti che muggirono soddisfatte e un netto dissenso da parte di Fufi che le espresse tutta la sua intenzione di continuare ad essere, almeno per quanto lo riguardava, un convinto carnivoro.
……continua
Rita Ciampichetti, 2024
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