Tiro a Segno: Italo Brizzi, Carlo Varetto e la ricostruzione

2012/10/08, Vergato – Vi abbiamo presentato Italo Brizzi nell’articolo precedente, ora vi proponiamo un “raccontino”, quello relativo alla ricostruzione del Tiro a Segno dopo gli eventi bellici e i rapporti con Carlo Varetto. E’ una memoria importantissima, dopo le foto storiche ufficiali dell’Archivio TSN di Vergato, l’articolo di Erardo Mandrioli su Sergio Varetto, le Macchine di Giuseppe e Sergio Sibani, questo articolo racconta da dentro la vita, le speranze e l’entusiasmo di questa attività. Si chiude così la serie di pubblicazioni della vecchia storia del Tiro a Segno… ma non è detto!!!

TIRO A SEGNO di Italo Brizzi

Dopo la guerra ricostruimmo il tiro a segno. Carlo Varetto era il Presidente. Vigo Ronchi il segretario. Consiglieri erano: l’avvocato Mario Segalla , teorico: ogni domanda sul tiro una precisa immediata risposta; il farmacista dottor Corrado Marchi sempre ricordato per la cultura, le qualità umane e lo scrupolo professionale; io maestro; Gino Sarti perito industriale. Mi sembra di ricordare che per un certo periodo fosse del gruppo anche Icilio Marchi, mugnaio. Un patito del tiro ma sarebbe meglio dire un grande amico ed accompagnatore di tutti i tiratori era Umberto Pederzani. Razza a parte era anche Vincenzo Lenzi detto Cencio, non era nel Consiglio Direttivo della Sezione di Vergato dell’Unione Italiana Tiro a Segno, ma faceva parte del gruppo per essere il custode del poligono e per abitare sul posto con moglie e figli. Vincenzo era tifoso del tiro ed abile armaiolo incaricato alla manutenzione delle armi. Camminava spedito pur zoppicando per gli esiti di una ferita all’inguine prodotta da cause di guerra. Sempre in movimento all’infuori di quando, seduto ad un tavolino sotto la tettoia, scrutava ogni angolo del poligono con un grosso binocolo militare americano per scoprire e prevenire ogni tentativo di intrusione. Spesso, quando non si udivano spari, due fidanzatini si accomodavano in una delle ampie buche prodotte, nel parapalle naturale a trecento metri, dagli infiniti proiettili sparati durante la guerra e lì i due si abbandonavano a vivaci effusioni. A tratti la ragazza pareva svenire; il fidanzato, a suon di schiaffi, la rinfrancava affettuosamente. Dopo la guerra i tiri a duecento metri ed a trecento metri furono abrogati. Si sparava a 50 metri con la carabina standard, la carabina libera e la pistola libera, nelle tre linee completamente circondate da muri; apposite quinte orizzontali impedivano, ad eventuali colpi partiti involontariamente, di uscire dall’alto. Le armi erano tutte calibro 22 a percussione anulare. A qualche mese dalla riapertura della Sezione mi fu affidato il compito di costruire un impianto per il tiro con la pistola automatica a 25 metri. Sante Carletti, abile elcttricista e di ingegno versatile, fu prodigo di suggerimenti. Usammo una putrella per imperniare i portasagoma, una molla da saracinesca per fare girare i cinque bersagli, ed un chiudiporta Mab per aprirli per 8 secondi, sei secondi e 4 secondi. In questo tiro Sergio, figlio di Carlo Varetto, iniziò la sua attività agonistica e raggiunse ben presto eccellenti risultati. Il farmacista si allenava in solitudine. Nel silenzio sparava trenta colpi metodicamente con la massima concentrazione. I suoi risultati in allenamento erano sempre eccezionali. La pistola libera richiede un polso immobile ed un attento controllo della respirazione ed un perfetto equilibrio del corpo. Il braccio è teso all’altezza dell’occhio, l’impugnatura anatomica deve fasciare tutta la mano senza produrre alcuna costrizione da alcuna parte. Infine il grilletto deve essere tanto sensibile da scattare causa il suo stesso peso, solo portando l’arma in posizione verticale.. Purtroppo sistematicamente in tutte le gare il dottor Marchi, dopo una serie di tiri bellissimi, 9 e 10, ma più dieci che nove, affidava involontariamente al bersaglio uno zero o un 2 o un 4. Da quel momento tutta la gara prendeva una piega rovinosa. Questa cosa per settimane fu il tema dominante di tutte le conversazioni, al bar, in farmacia, al tiro a Segno, lungo il fiume durante la pesca, a spasso per le vie del paese. Il dottore decise di tentare con la medicina e si munì di un flacone di Neurinase, sciroppo sedativo a base di erbe. Provò prima in allenamento poi in gara: La media calava rispetto ai vecchi tiri d’allenamento ma quei colpacci terribili in gara erano scomparsi. Tutti provammo l’effetto del medicamento e concordemente ne rimandammo l’uso sistematico a dopo una sperimentazione più prolungata e attenta. Sulle prime utilizzammo le armi che si poterono recuperare: un paio di ” moschettini Berretta” un paio di pistole per tiro libero ed una carabina libera “Walter” di Varetto, che presentando segni di corrosione all’interno della canna, fu rettificata per una decina di centimetri; nonostante la modifica, in pratica un accorciamento di canna, l’arma era perfetta, costante nello scatto del grilletto e nella traiettoria del proiettile. Poi arrivarono da Roma, alcune carabine standard marca Beretta di nuova concezione a tiro semiautomatico ed una carabina libera Hammerli, fra le migliori in campo internazionale. L’Hammerli fu assegnata a Carlo e lui diede a me la Walter. Presto scoprimmo che la corsa del percussore nelle nuove Beretta era troppo lunga e dopo un consulto con Vincenzo ci recammo all’armeria  Orlando, nei pressi del Teatro Comunale di Bologna, che praticò le necessarie variazioni. Il percussore era costituito da un tubetto dentro al quale agiva una molla elicoidale, all’estremità anteriore vi era una prolunga d’acciaio di cinque millimetri e due millimetri di diametro che fungeva da cane; in basso era posto il dente d’arresto che fu spostato più indietro di circa 20 millimetri. Questa modifica consentì un accorciamento di tempo fra il momento dello scatto del grilletto e l’arrivo a destinazione del percussore e consentì un miglioramento costante di 3, 4 punti, sui risultati complessivi degli allenamenti e delle gare. Successivamente, sempre dalla Direzione Generale dell’ U.I.T.S., arrivarono altre armi: Carabine standard lager, pistole per il tiro libero a 50 metri e per il tiro celere a 25 metri. Via via la squadra dei tiratori s’infoltiva. Nei primi tempi furono a disposizione solo le cartucce italiane, a percussione anulare, calibro 22, della ditta Fiocchi. Più tardi furono disponibili munizioni svizzere, tedesche ed mericane. Usate forse solo perché più care. Varetto incollò un disco di carta nera, del diametro di circa 10 centimetri, nello zoccolo del muro al di là della piazza, di fronte alla sua oreficeria  di via Marconi. Infilava la giacca da tiro, assumeva la posizione in ginocchio con un sacchetto di crusca sotto la caviglia destra, infilava un bossolo nella camera di scoppio della carabina e puntava e tirava il grilletto. L’arma era diretta verso la stazione ferroviaria di Vergato. Carlo stava ore ed ore a fare esercizio. Si alzava solo per servire un cliente o per sgranchirsi un po’, o per conversare con gli estimatori e gli amici che andavano a fargli visita. Il bossolo vuoto serviva ad evitare che l’acciaio del percussore battesse contro l’acciaio della camera di scoppio provocando, nel tempo, alterazioni alle due parti. Carlo era convinto che l’esercizio di punteria in ginocchio migliorasse il tiro anche nelle posizioni in piedi ed a terra e raccomandò sempre tale pratica ai suoi allievi. Negli anni 1950,1951,1952,1953, partecipammo a varie gare comunali, provinciali, nazionali. Andammo a Milano dove, per merito di Carlo conoscemmo gli scampi fritti, squisiti, al ristorante della stazione ferroviaria. A Venezia, al Lido, dove Pederzani per la prima volta in vita sua si tuffò nel mare; dove assistemmo alla festa del Redentore ed alla regata storica; dove il dottor Marchi ci condusse per calli e piazzette a scoprire ed ammirare le splendide opere di Antonio Canova . A Roma, città del Presidente Nazionale UITS, generale Giovanni Gatta, dove, sempre per merito di Carlo scoprimmo la zuppa di pesce in, trastevere, oltre il ponte Milvio al Giardino dei Poeti. Non lontano dal poligono Umberto Primo.. Alla città del Segretario Generale della UITS Attilio Battistoni, Verona dall’aria dolce un poco assonnata; con l’Adige, (Varetto oltre le armi aveva portato la canna da pesca) la piazzetta delle Erbe, la piazza dell’Arena, il gelato semifreddo, il soave, il valpolicella, Giulietta e Romeo. Infine Catania! La via Etnea, la zuppa di cozze nere, il giardino Vincenzo Bellini, la spremuta di arance colte mature. Catania dove per la prima volta misi i piedi nel mare. Eravamo partiti da Vergato alle otto del mattino, dopo il traghetto, la zagara, i faraglioni, arrivammo alle 8 del mattino dopo. Le armi, allora sempre senza neppure una custodia di stoffa, ammassate sui portapacchi. Carlo era sceso a Roma ed a Battipaglia per comprare il gelato che, in quelle due città, lui sapeva essere eccezionale. Ne prese anche per me, “Sentilo Bvizzi” diceva con la sua “erre francese” ed io a mangiar gelati senza ritegno. Il presidente della Sezione T.S. era l’avvocato Previtera. Distinto, gentilissimo, felice di avere a Catania un tiratore del calibro di Varetto che aveva partecipato alle olimpiadi di Melburn, da anni campione nazionale indiscusso di carabina libera. Là il parapalle era… il mare! Rimasi sconcertato, Non capivo come fossero tenuti lontano da quel tratto di mare pescatori, gitanti e bagnanti. Ci iscrivemmo alle gare di carabina libera, carabina standard, pistola libera e pistola standard ed al tiro celere. Portammo a casa otto primi premi forse meno o forse più ma certamente tanti; io e Carlo non eravamo mai antagonisti poiché si gareggiava in classi diverse. La mattina, nel tratto dall’albergo al poligono, mangiavamo aranci maturati sull’albero spargendo in terra le bucce. Un venditore di aranci ci indicò sorridendo la fila dei cestini per la raccolta dei rifiuti che girava tutt’intorno al mercatino. Da quel momento ci adeguammo al senso civico del posto. Noi biondi calati dal nord a conquistare ed evolvere il sud. Indimenticabile fu una gara provinciale a Bologna. Partimmo al mattino con il treno, arrivammo a Borgo Panigale; attraversammo il ponte sul Reno, infilammo via Agucchi e circa alle 8 e 30 fummo al poligono. Cesare era il nome del custode il quale, in occasione di gare, indossava una palandrana bianco-avorio che gli arrivava sopra le scarpe. Ci furono assegnate le linee di tiro, ci preparammo ed al segnale convenuto cominciammo a sparare. Il dott. Corrado Marchi, Carlo Varetto, l’avvocato Segalla ed io. Fervidi assistenti Umberto Pederzani e Vincenzo Lenzi ed un altro paio di giovani vergatesi trasferitisi a Bologna. Ben presto fu chiaro che si cercava, da parte degli ospiti, di innervosire i tiratori di Vergato. Il sistema era semplice e vecchio com’era vecchia la segnalazione dei punti dalla fossa: si alterava il tempo di ricambio dei bersagli, si montava un bersaglio giù di squadra, si segnalava il punto con molto ritardo o molto velocemente. In casi estremi si stracciava il bersaglio con la punta della paletta. Io stavo facendo un risultato d’eccezione quando nell’ultima posizione, in ginocchio, mi vidi stracciare il bersaglio, appunto. Dovetti scendere dal pancone e fare quattro passi per la tettoia; Vincenzo ed Umberto mi affiancarono esaltando il mio risultato, incitandomi a non mollare e dicendo contumelie agli amici di Bologna. In effetti fin lì il mio tiro era stato da campionato assoluto nella carabina standard gli ultimi colpi in ginocchio erano stati dieci dieci. Tornai in posizione ma non riuscii ad assestarmi come in precedenza; ottenni sei dieci e quattro nove, guadagnando solo il diploma di campione provinciale di categoria e una bella medaglia d’oro. Dietro di me ma anche dietro gli altri tiratori vergatesi c’era stato uno scalpiccio, delle proteste mugugnate, delle esclamazioni soffocate. Vincenzo, Umberto e gli altri si spostavano da un tiratore all’altro e accertarono che a tutti, chi più chi meno, era stato riservato un trattamento dannoso. Più passato il tempo e più era salita l’indignazione.. Vincenzo aveva dimenticato di proporre il Neurinase ai tiratori e di tanto in tanto lui stesso faceva uso del calmante. Finalmente nella lunghissima tettoia fu sparato l’ultimo colpo e nei tabelloni cominciarono a comparire i risultati. Si sparse la voce che il servizio ai bersagli era stati prestato da persone prive d’esperienza. Nonostante tutto il dottor Marchi ottenne un risultato di tutto rispetto . Anche l’avvocato Segalla superò se stesso. Carlo Varetto migliorò il record nazionale di tiro con la carabina libera da lui stesso detenuto. Facemmo il percorso a ritroso e quando fummo di nuovo a Vergato dovemmo reggere di peso Vincenzo per farlo scendere dal treno. Non dava segni di vita. Lo sdraiammo su una panchina della Stazione. Fu palpato, strattonato, chiamato a voce alta e frugato. Dall’ispezione sortì il flacone di Neurinase, vuoto. Il farmacista riassicurò gli astanti e Vincenzo dormì due giorni. Forse per pura coincidenza Varetto, il farmacista ed io eravamo pescatori. Io pescavo con la crisalide del baco da seta e il lombrico, con poco successo. Mio maestro e amico era il calzolaio Aldo Bernardi infallibile nel scegliere ora, luogo, amo, esca e strappo per ferrare barbi e cavedani. Il farmacista pescava con la “mosca”: canna corta, lenza lunga otto metri, tenuta sempre in movimento sopra la lieve corrente del fiume; al termine molto assottigliato della lunga lenza la mosca che il dottore faceva cadere dietro un sasso nell’acqua immobile; il pesce, se c’era, abboccava. Varetto pescava nei torrenti intorno a Vergato; sotto i sassi trovava l’esca giusta e con quella catturava trote iridate del peso anche di mezzo chilo. Solo una volta gli vidi perdere la calma: A Milano, alla fine di una gara gli fu contestata la regolarità dell’imbottitura della sua giacca da tiro. Si trattava dell’imbottitura al gomito sinistro e interessava il tiro da terra. Era un pomeriggio e la gara di carabina libera era andata per le lunghe. Varetto, con i suoi venti colpi in pedi, venti in ginocchio e venti a terra si era classificato campione nazionale assoluto ed aveva migliorato di tre punti il primato che già deteneva. D’abitudine ogni punto in più del record veniva premiato con l’assegnazione mille cartucce. A niente servì dichiarare che la giacca era stata ispezionata dalla commissione prima dell’inizio della gara. Era solo permessa la ripetizione della serie. Un tiratore milanese amico prestò la sua giacca. Carlo salì sul pancone ed assunse la posizione a terra. Io mi sedetti alla sua sinistra, posi sulla balaustra un bersaglio da carabina libera, l’occhio incollato sul cannocchiale puntato sul bersaglio, a cinquanta metri, integro. Partì il primo colpo; misi un bossolo calibro 22 perfettamente al centro del bersaglio che avevo posato sulla balaustra. Carlo guardò con la coda dell’occhio, ricaricò e sparò il secondo colpo che arrivò quasi perfettamente dentro al primo. Il bersaglio a 50 metri fu sostituito con un altro intatto Ogni due colpi l’operazione veniva ripetuta con precisione cronometrica. Ogni colpo io mostravo dove la pallottola aveva forato il bersaglio. La luce del giorno calava ed ogni colpo Varetto ritoccava la diottra che aveva due viti zigrinate, una per correggere la posizione verticale e l’altra per la posizione orizzontale. La luce calava ma Varetto non si affrettava; lui sapeva, per istinto, quanto tempo gli restava per finire la serie e quando la luce non sarebbe più stata sufficiente per sparare. Era tranquillissimo. Sparato l’ultimo colpo il risultato fu 198 su 200. Diciotto dieci e due nove. Aveva migliorato il tiro precedente di tre punti! Quel tiro ottenuto con una giacca troppo imbottita a detta della giuria. La piccola folla che si era radunata dietro al tiratore applaudì. Varetto scese dalla postazione, restituì la giacca all’amico milanese e, intanto che ringraziava, la voce s’incrinò. Chinò la testa, gli occhi si inumidirono ma subito riprese a commentare il magnifico risultato, a conversare e scherzare con gli astanti. Mi mise una mano sulla spalla. “Vieni Bvizzi, andiamo a pvendeve un gelato”.

4.12.1999