Carmen Spinnato – L’incontro

2013/02/28, Vergato – Carmen Spinnato. Nata a Vergato (Bologna), risiede a Bologna. Impiegata, attual­mente pensionata. Non ha mai partecipato ad alcun concorso. Frequenta l’Università degli anziani “Primo Levi” di Bologna.

L’incontro

II momento tanto atteso era arrivato. Tutto ormai era pronto in quel cortile di periferia, nella vecchia casa semidistrutta dalla guerra dove vivevano quattro piccole famiglie. I due vecchietti e il loro nipo­te si erano preparati un buon osservatorio nella loro cantina: stando dietro le imposte della finestra a livello terra, potevano agevolmente vedere senza essere visti. Il calzolaio e la moglie si erano seduti sotto la tettoia dove erano sistemate alcune gabbie con i conigli, il desco del calzolaio e due seggioline, e di lì, fingendo di lavorare, anche loro potevano vedere. I componenti di un’altra famiglia potevano starsene comodamente seduti sul loro terrazzo… a prendere il fresco. Nessuno aveva voluto rinunciare a prepararsi per quella scena che, come ave­vano più volte ripetuto in dialetto; «Era una cosa da cinema»; il loro vicino, un operaio di 37 anni avrebbe incontrato per la prima volta nella sua vita sua madre e suo padre. Ora stava in piedi lì nel cortile, con la moglie e i due figli, un bambino di 6 anni e una bambina di 11, tutti agghindati nei loro vestiti “buoni”, timorosi di quanto stava per accadere. Ora l’uomo non era più tanto sicuro di aver fatto bene a fa­re quelle ricerche; vi era stato spinto da un film anzi, da una serie di film: “Catene – Tormento – I figli di nessuno”, e proprio questo ultimo era quello che gli aveva dato la spinta decisiva. L’aveva visto tre vol­te insieme alla figlia ed ogni volta era uscito dal cinema asciugandosi furtivamente gli occhi, riconoscendo nella storia vista sullo schermo la sua storia; solo che nella sua storia reale mancava il lieto fine, ed era questo che lui voleva trovare, voleva cancellare dai suoi docu­menti quel “figlio di N.N.” e gli era venuta anche la curiosità di VEDERE come fossero i suoi veri genitori. Non che gli fosse manca­to l’affetto di una famiglia, anzi!

La sua vera madre lo aveva lasciato al brefotrofio della città di Bologna (ai Bastardini come comunemente si diceva) quando aveva un mese di vita, era partita lasciando scritto sui documenti dell’ospedale solo il suo cognome di “ragazza madre” ed il bambino era stato affidato per l’allattamento ad un’altra madre che prendeva, per questo “servizio”, un piccolo compenso giornaliero: piccolo sì, ma molto im­portante per lei e la sua famiglia che già contava sei figli e viveva di agricoltura in un paese dell’Appennino, dove agricoltura voleva dire un orto e qualche albero da frutto, appena sufficienti a sfamare una famiglia anche meno numerosa. Dopo quasi un anno, cessato l’allattamento, la “madre” aveva af­frontato un’ora di viaggio in treno per riportare il bambino al brefotrofio, ma quando fu per riconsegnarlo non ne ebbe il coraggio e se lo riportò a casa e quello divenne il suo settimo figlio, sempre e da tutti trattato come fratello degli altri sei; anzi, per essere sinceri, biso­gna dire trattato un po’ meglio degli altri proprio perché lui, poverino, era “un bastardein”. Erano passati gli anni, era passata la guerra e lui si era trasferito in città con la moglie e i figli e gli era venuta questa curiosità di sapere chi era, ed era riuscito dopo tante peripezie epistolari fra parroci e ve­scovi di altre città a rintracciare la madre che, dapprima, non era stata certamente entusiasta di questo “ritrovamento”. Poi aveva iniziato a scrivergli brevi lettere, a mandare qualche fo­to sua e di suo marito (il padre del bambino) e, dopo uno scambio di foto e lettere durato oltre un anno, si era decisa a venire a fare la co­noscenza di suo figlio. Ormai stavano per arrivare, era già passato l’orario di arrivo del treno e la stazione non era lontana; ecco che spunta dal fondo del cor­tile una carrozza pubblica (ce n’erano ancora in servizio), i vicini si sistemano meglio nei loro “nascondigli”, la carrozza arriva, si ferma e una donna minuta si sporge piangendo e gridando: «Figghiu, figgimi mio!». Sembra un film, ma è la realtà e i vicini non si preoccupano nep­pure più di nascondersi, ma si soffiano rumorosamente il naso.

La bambina abbraccia i nuovi nonni e tanti pensieri affollano la sua mente; che regali avranno portato? saranno ricchi? Alcune cose però sa con certezza: lei che parlava sempre in dialet­to bolognese è invece siciliana, (ecco spiegata la sua carnagione scura) e così anche suo fratello e suo padre e poi, quando riapriranno le scuole e chiameranno un nuovo cognome dal suono strano “SPIN-NATO”, lei dovrà spiegare perché non ha più il suo cognome dell’anno scorso e dovrà ripetere la storia ad ogni professore, e sono nove! Forse sarebbe stato meglio lasciare le cose come stavano.

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