Umberto Bernardi – Ecco che ritorna dal passato, un’ altra maschera vergatese, Chech Stentarin

2017/11/23, Vergato – Un’altra storia di Umberto Bernardi; Chech’ Stintarin, Maschera vergatese

La Rossa:

Am rcord ch al m’dis
“Rossa, cara surella,
S’l’at vgnes bella
D’farm dshunor,
N’intrar in qul humor,
Chat’ in farò pintir,
Prché al vuoi mantgnir
Pr’fin ch’a sto in st’mond,
E s’ben a par sì tond.

Ecco che ritorna dal passato un’ altra maschera vergatese, Chech Stentarin marito della Rossa dal Vergato. Sarà proprio lei a raccontarci con un po’ di nostalgia chi era. Grazie agli opuscoli di Giulio Cesare Croce conservati all’Archiginnasio di Bologna torna a noi una possibile storia vergatese avvenuta alla fine del conquecento, vera o verosimile o solo nata dalla fantasia del Croce.

Chech Stintarin (Franceschino poverello)

Stintarin, come nella maschera della commedia dell’arte, Stentarello è il diminutivo di stento, sofferente per povertà e privazione. In realtà la maschera fiorentina di Stentarello raffigura il popolano, di bassa estrazione, il quale oppresso da avversità ed ingiustizie, ha in sé sempre la forza di ridere e scherzare.

Anche dal racconto della Rossa, Chech o Checco o Francesco non è ne troppo grasso ma nemmeno troppo magro, povero si ma ricco di maroni, fichi e castagne, gran parlatore, sempre allegro e mattatore, è lui che apre le feste e i balli e provvede al mantenimento dei quattro figli.

I problemi della Rossa sopraggiungono dopo la sua morte, una breve malattia che lo porterà “di là” dopo solo quattro giorni, mentre la Rossa rimarrà “di qua” e per sostenere i figli dovrà vendere i pochi beni che possiede, dovrà poi emigrare come tanti italiani e non solo.

La città l’accoglierà o la rifiuterà? Nei tempi della Rossa, i tanti montanari che raggiungevano Bologna, per rimanere in città dovevano dimostrare di avere già un lavoro con un documento che attestasse il loro stato, un vero e proprio permesso di soggiorno, pena l’allontanamento dalla città e forse anche la galera.

I tempi erano cambiati da quando nel duecento la città cresceva e Bologna aveva bisogno di braccia. Allora stava nascendo una nuova classe dirigente, la città diventava Comune e per ingrandirsi si inventò una legge detta “Liber Paradisus” e per la prima volta nella storia si decretò la cessazione della schiavitù

Bologna ha una antica e gloriosa tradizione in materia di libertà, la stessa insegna municipale reca la scritta “Librtas”, ma solo dopo trecento anni da quei fatti, dopo aver tenuto fuori dalle sue mura soldati, mercenari e perfino l’Imperatore Federico Secondo, ora le mura tenevano fuori i montanari, cittadini di seri e B.

Finalmente l’oscuro Medioevo era finito ma ormai stava finendo anche il Rinascimento.

La Rossa:

Am’ chiam la Rossa,
Di mal accumpagnà,
Ch’fu zà maridà
In Cech’ stintarin,
Al qual iera un fantin,
Ch’ s’fieva rsptar,
Es n’iera un so par,
In tut qui chmun.
Lu rich d’marun,
D’fig e d’castagn,
E po’ al mior cumpagn
Ch’ fuss in qual cuntà.
Al sa tut al Vergà
S’gliera da cuel
Es liera un cervel
Da metr in statut.

Al fieva po al saput,
Es iera un parlador
Ch’al’ l’instieva a un dutor,
Per dir la so rason,
Liera chiamà da ugnon
Sovra ugn diffrientia
A dar la so sententia,
E sovra ugn bstrat
Al n’è si destr un gat
Cun liera in tal saltar,
E po pr clafar
Al n’havea parangon,
Gliera po cumpagnon
Es havea dal tascar.
Oh, ch cervel bizar
S’a fort al s’ballava,
Liera quel ch’aviava
Sempr la festa, lu,
E cun s’fa da nu,
Liera po calsent

Al tgniva la zent
Sempr in piaser e in spas,
Al n’era trop gras,
Mo nianch trop sut,
Al piasea mo a l’ put,
A sempr liera in bal,
Mai n’mteva in fal
Un pè, tant ieral nech,
Al fieva star a stech
Tut quij d’qual chmun,
Al purtava i schfun
D’ugnhora dsligà
La daga intarsià
Con un bel curzin
Al parea un paladin.
A ch al guardava fis
A m’arcord ch al m’dis:
“Rossa, cara surella,
S’l’at vgnes bella
D’farm dshunor,

N’intrar in qul humor,
Chat’ in farò pintir,
Prché al vuoi mantgnir
Pr’fin ch’a sto in st’mond,
E s’ben a par sì tond
N’m’haver pr un galavron,
Ch’a son un bstion
Ch’so po’ far dal mal,
Es so quant sal
Và a salar un purchet,
S’a son ben puvret,
A son rich d’hunor.
Donca, portam amor,
Prché a tin port a ti”,
Al dis quest un dì,
E l’altr al s’ammalò,
E in quattr dì l’andò,
A star con quij d’là,
E mi ristà d’zà,
Con quattr fansin,
Qui niera pan n’vin,

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