LA LUNA e L’INCANTO
Si era alzato presto, che era ancora notte: a lui piaceva così. Come tutte le volte, la preparazione assunse i caratteri di un rito: la borsa fotografica (già allestita la sera precedente), un po’ di cibo, dell’acqua.
Guidare con gli scarponcini risultava più difficoltoso, ma dopo le prime curve si sarebbe abituato.
Le luci di Porretta rimanevano alle spalle, mentre un leggero chiarore stagliava i monti, con davanti Castelluccio.
Come tutte le volte, un motivetto musicale gli ronzava per la testa, senza un motivo plausibile. Per quanto cercasse di dimenticarlo, tornava subito alla mente, ricco di parole e armonia.
Canticchiava senza volerlo, arrivando a stupirsi della memoria che era in grado di richiamare.
“E’ la solitudine”, si spiegò una volta; e non ci fece più caso.
Parcheggiò al solito posto, dove il rumore dell’acqua indicava l’inizio del sentiero. Da lì sarebbe proceduto a piedi.
“E’ una questione di luce”, ripeteva spesso a se stesso; “E per comprenderla bisogna osservarla completamente, assaporarne gli istanti; perché, quando albeggia, tutto cambia in ogni momento”.
Mentre camminava, si rese conto di come i suoi pensieri fossero diventati credo, comportamento interiore.
“Io rispetto i monti”, ebbe modo di dirsi un giorno. “E loro mi aspettano”.
Intraprese il sentiero quasi senza vedere, con passo celere e deciso. Il profumo gli riempiva il respiro e dello stesso si meravigliava tutte le volte, tanto era intenso.
Il silenzio regnava deciso. Si stava passando dalla notte al giorno, e l’allocco non avrebbe più cantato per la preda catturata.
Il rumore degli scarponcini interrompeva il nulla, quasi con un effetto eco. Sarebbe arrivato alla Madonna del Faggio prima dell’alba, come aveva pianificato.
All’improvviso, dovette fermarsi.
“Chi c’è?”, stava per chiedere; ma la domanda la rivolse solo a se stesso. Dei passi, identici ai suoi, sembrava lo seguissero. Non provò paura, ma una sorta di curiosità estrema: quella che esige subito una risposta.
Si voltò: non c’era nessuno.
Tornò a camminare, questa volta tendendo l’orecchio. Mutò il passo più volte, per modificarne il ritmo. Un metro, due, dieci; poi, ecco che sente ancora quello scricchiolio identico al suo. Con lo scarpone aveva spezzato un ramoscello e altrettanto aveva fatto colui che forse lo stava seguendo. Volse ripetutamente lo sguardo a ritroso: nessuno.
I faggi si ergevano diritti e regolari. Lo sconosciuto avrebbe potuto nascondersi ovunque, e all’improvviso. Non provò paura, comunque; per la prima volta percepì di essere realmente solo.
Percorse una piccola discesa, poi un ponticello: di fronte gli si parò la Chiesa, bella e impossibile, anche solo per la fantasia. Scattò ripetutamente ciò che aveva già immaginato. Era felice.
Durante il ritorno, il segugio non diede segni di vita. Per quanto tendesse l’orecchio, il suo passo rumoreggiava singolo e definito. Perché pensarci ancora? Non ne valeva la pena. Si mise a riflettere su i suoi scatti, quasi immaginandoli. Li avrebbe aperti appena giunto in negozio.
La scena era strana: priva di rumori e odori. Lui camminava, senza procedere in avanti: era il paesaggio a muoversi, come in un cartone animato. Per quanto si sforzasse, rimaneva sempre lì, con quel faggio enorme alla sua destra. Provò ancora, ma non ci fu verso: stazionava sullo stesso punto.
Dopo un po’, tutto iniziò a complicarsi. Un lupo grigiastro correva sulla sua sinistra, come lui senza procedere in avanti. Un altro comparì più su, poco distante da un gruppo tutto al galoppo, sulla sua destra. Degli uccelli saltavano da un ramo a quello successivo, sempre senza guadagnare terreno. Provò a fermarsi, ma la scena continuava a muoversi come su un tappeto che ruotasse su se stesso. Altri animali correvano in avanti: scoiattoli, volpi, cani, gatti selvatici. Non si preoccupavano di lui, che oramai era sconfitto dalla paura.
All’improvviso, tutto mutò repentinamente. Lo scenario, prima mobile solo alla vista, compì un balzo in avanti. Lui quasi si sentì cadere, mentre tutti gli animali, pur correndo, rimanevano indietro. Un vento forte soffiava sul suo volto, costringendolo a chiudere gli occhi. Il paesaggio divenne indefinito, mosso, poco riconoscibile. Alberi e cose sfilavano al suo fianco, come visti da una motocicletta in corsa.
Lui guardò ancora in avanti, a fatica. Una luce intensa comparve laddove proveniva il vento: biancastra, lattiginosa; e poco dopo divenne cerchio, sfera, pianeta. Assomigliava alla luna, anzi lo era; perché ingigantendosi mise in mostra crateri e dettagli. Ormai era vicinissima, che quasi si poteva toccare …
“Oddio”, disse.
Era seduto sul letto, con la fronte imperlata di sudore.
“Cosa ti succede?”, chiese la moglie. “Ti muovevi come un forsennato”.
“Stavo andando incontro alla luna, era grandissima”.
“Lo credo bene, non si tratta di un sasso”, aggiunse lei.
Lui cercò le ciabatte e scese dal letto.
“Vado a bere un goccio d’acqua”, disse.
“Ti aspetto”, ribadì la moglie.
Di ritorno, raccontò il sogno, il paesaggio che si muoveva da solo, gli animali che correvano al suo fianco, la luna sempre più grande. Subito dopo, si mise a parlare della passeggiata mattutina alla Madonna del Faggio, di come si sentisse inseguito, quasi braccato da un’altra persona.
“Non ero solo”, concluse. “Ne sono convinto”.
“Sui tuoi monti non sei mai solo”, ebbe modo di dire la moglie.
“Perché pensi a me?”, chiese lui.
“No, sono finiti quei tempi”, ribadì lei. “C’è un altro io che ti accompagna, ma sei sempre tu”. “Quando tornerai lassù, devi aspettarlo: ti accompagnerà”.
Era il periodo della “Luna grande”. Aveva parcheggiato nei pressi di Castelluccio. Iniziò a camminare, ma poi si fermò. Aspettava chi lo avrebbe accompagnato.
Un alito di vento soffiò all’improvviso. Diede un colpo di tosse che divenne eco, al secondo parve udirne un altro: distinto e preciso.
Si rimise in cammino e i rumori dei suoi passi divennero doppi. Non era solo, l’incanto dei suoi monti lo stava accompagnando.
La luna era meravigliosa, stagliata dietro la Croce del Corno, con monte quasi a sostenerla.
Luciano Marchi |