Rita Ciampichetti – Voci dal passato: la foto nel cassetto della nonna Diomira
2023/03/23, Vergato – Voci dal passato: la foto nel cassetto
Ebbene sì.. se non diventavo una semplice impiegata mi sarebbe piaciuto fare l’archeologa o la ricercatrice di tesori nascosti.
Mi ha sempre affascinato il passato e ciò che rimane di esso, tutto ciò che da molti viene considerato “vecchio” suscita il mio interesse e stimola la mia immaginazione e fantasia.
Gli oggetti provenienti dal passato siano essi mobili, suppellettili, libri, giocattoli, fotografie, ritratti, quadri, documenti, abiti mi affascinano perché riescono a parlarmi di tempi lontani, di usi, costumi, tradizioni e modi di vivere quotidiani. Alcuni di essi occorre interpretarli, di altri si è persa la conoscenza del loro uso e solo chi vanta una certa età è in grado di ricordare a cosa servivano.
E’ così forte questa mia passione che provoca di conseguenza una mania di conservazione delle cose tale da non farmi buttare via nulla.
Non è l’atteggiamento previdente dell’antico detto “Tû só e métt là che la sô la vgnarà” perché spesso ormai tali oggetti non hanno nessuna utilità pratica in quanto soppiantati da moderni elettrodomestici o caduti completamente in disuso, è proprio una passione forse più simile a quella del collezionista.
Mia mamma invece, particolarmente propensa all’ordine ed alla pulizia, aveva in profonda avversione quello che non si utilizzava più e che diventava inutile zavorra occupatrice di spazio e che classificava genericamente come “zavaglio”.
“Se continui a tenere da conto tutti quei zavagli a te non bastano due case!” esordiva quando stava per buttare via qualcosa ed io la bloccavo dicendo “Questo lo prendo io!”.
Ho imparato dopo che “Zavaglio” era chiamato quel funzionario che in caso di vendita o spartizione di una eredità faceva l’inventario e la valorizzazione di tutti i beni compresi gli oggetti rotti o di valore minimo. Per tradizione popolare bolognese tali oggetti di scaso valore e inutilizzabili vennero pertanto nel tempo soprannominati “zavaj” (zavagli).
Le antiche foto poi suscitano il mio interesse totale, perché mi piace osservarle nei dettagli e se sono animate carpire le espressioni del viso delle persone immortalate, notare i particolari dell’abbigliamento, immaginare cosa gli passava per la mente in quel momento.
Le foto di paesaggi ti fanno riflettere su come è cambiato e si è evoluto l’ambiente specialmente se fai il confronto ieri-oggi dalla stessa vista.
Quando voglio dilettarmi nel guardare vecchie fotografie, una miniera a cui attingere sono gli album di famiglia conservati nell’antico cassettone nella sala dei miei suoceri. In quello riportante le foto più datate personaggi in pose un po’ impettite mi osservano con occhi incantati, le foto in bianco e nero sono ingiallite però ancora ben nitide diversamente da alcune più recenti a colori fatte con la Polaroid che tendono a schiarirsi fino alla perdita di definizione.
L’altro giorno ne ho voltata una delle più antiche e sul retro scritto a matita l’appunto “nonna Diomira mamma – zia”, che pubblico per commentarla assieme.
La calligrafia è di mia suocera Rosita.
La fotografia è quella di tre donne, una seduta più anziana, probabilmente la nonna Diomira, altre due, più giovani, di lato in piedi.
Gli abiti sono quelli caratteristici femminili di fine ‘800: rigorosamente chiusi attorno al collo in quanto le scollature erano consentite solo negli abiti da sera, le maniche lunghe, strette nella parte finale, con spalle cadenti, le gonne ovviamente fino ai piedi, negli abiti delle ragazze si notano decorazioni più accurate rispetto a quello di Diomira: le numerose piegoline e le varie applicazioni in pizzo e passamaneria, possiamo inoltre immaginare che sotto nascosti ci fossero strati di biancheria intima quali camicia, busto, copribusto, sottogonne, mutandoni che celavano grazie femminili, da notare il vitino reso sottile dal busto. La giovane in abito scuro tiene stretto in mano un guanto bianco.
Anche le acconciature sono tipiche della prima decade del ‘900. I capelli lunghi venivano raccolti in elaborate e gonfie “banane” e non essendo stata ancora inventata la permanente si arricciavano i capelli con le pinze arroventate sul fuoco.
I loro sguardi sono assorti, Diomira sembra guardare l’obiettivo, le giovani guardano di lato fissando un punto lontano.
A quei tempi le pose fotografiche erano lunghe e stancanti, infatti spesso si nota che i soggetti sono seduti o si appoggiano a portavasi o altri arredi, raramente sorridono, difficile mantenere un “cheese!” per tanto tempo!
Mentre è chiaro chi è la nonna Diomira presumo che la mamma della Rosita sia la ragazza vestita di scuro, ma è una mia supposizione confrontandola con un’altra foto in un piccolissimo porta ritratto.
La sua storia è molto triste ed è quella simile alle altre mille di tanti Italiani che ai primi del ‘900 immigrarono verso Paesi oltre oceano con il miraggio di un lavoro sicuro e di una veloce ricchezza. La mamma della Rosita, classe 1885 si chiamava Lazzarini Rosa e subito dopo sposata partì con il marito, Colombarini Giuseppe, carpentiere, destinazione Argentina senza fare più ritorno in Italia perché il 23 marzo 1911 morì di parto in quel di Olavarria dando alla luce una bambina di nome Alma Argentina Victoria: mia suocera.
Mia suocera non ricordava chi l’aveva allevata, diceva solo che iniziarono a chiamarla in spagnolo Rosita in ricordo della mamma morta e quel nome le rimase anche quando all’età di quattro anni ritornò in Italia con il padre per rimanervi per sempre.
Della sua mamma le sono rimaste solo due fotografie e questa è quella più significativa.
Nella mia immaginazione ho sempre pensato che questa foto sia stata voluta da Rosa per portare con sé, nel lungo viaggio che l’attendeva, il ricordo dei volti della mamma e della sorella che non avrebbe più rivisto per tanto tempo e che poi in effetti non rivide mai più.
Se lo scopo era quello allora si comprende lo sguardo rassegnato di nonna Diomira e l’abbraccio alla vita della sorella. Rosa invece sembra avere una espressione più determinata, forse è entusiasta per l’avventura che l’attende assieme all’uomo che ama e non immagina lontanamente quale sarà il suo destino.
E’ affascinante inoltre pensare che parte del DNA di queste donne, nel tempo così lontane, arricchisce il patrimonio genetico delle mie figlie e allora mi viene da osservare meglio, magari con la lente, per trovare qualche somiglianza.
Il nome poi della trisavola Diomira che significa “illustre per il suo popolo” mi piace moltissimo perché oltre ad amare gli “zavagli” adoro i vecchi nomi di una volta ormai non più utilizzati e che nessun genitore oggi si azzarderebbe a dare alle proprie creature.
Non sentiremo più chiamare una bambina per esempio Desolina, Gertrude, Zaira, Adalgisa, Crocefissa, Petronilla, Brigida, Apollonia, Doviglia o un maschietto Cornelio, Effisio, Evaristo, Genesio, Isidoro, Basilio, Pellegro o Deodato anche se hanno tutti significati molto profondi.
E’ l’evoluzione della storia, dei costumi e della moda, mi consolo pensando che tutto sommato quando un domani, spero ancora lontano, non ci sarò più tutti gli “zavaj” accumulati potranno fare felice qualche antiquario, nel presente sono voci che mi sussurrano dal passato storie incredibili.
Rita Ciampichetti 2023