La Brigida – Vicende di una famiglia dell’Appennino Bolognese e non solo, cap.1

2024/07/21, Vergato – Inizia oggi la pubblicazione del racconto (lungo) di Rita Ciampichetti:

La Brigida – Vicende di una famiglia dell’Appennino Bolognese e non solo

Vedi la presentazione qui; https://vergatonews24.it/2024/07/19/ritorna-la-rita-con-un-racconto-lungo-storie-da-leggere-prima-di-andare-a-letto/

Capitolo 1: Un inizio difficile

La notte in cui decise di venire al mondo Leonia Veggetti, con circa quei due mesi di anticipo rispetto alla data presunta del parto, fu la peggiore di quel mese di novembre 1953. Giove Pluvio aveva deciso di scatenare la furia di tutti gli elementi atmosferici a disposizione: rovesci di pioggia, fulmini e saette ed un vento di tramontana che sferzava la pelle e sventagliava l’acqua in ogni direzione in quel piccolo borgo di case dell’Appennino in provincia di Bologna.

All’Elide le doglie iniziarono nel pomeriggio quando attingeva l’acqua per la cucina dal pozzo, era il primo figlio e giovane com’era non riusciva a capire da che cosa potevano essere provocate quelle fitte alle schiena che ogni tanto la trafiggevano come coltellate, la Natalina le aveva detto di aspettarsi l’arrivo del bambino per il mese di gennaio quindi si sentiva tranquilla.

Quando però verso sera, di ritorno dal pollaio dove aveva rinchiuso per la notte le galline, le fitte aumentarono e si fecero sempre più frequenti si decise finalmente a dirlo alla Cesira, sua suocera.

Abitavano nella stessa casa, l’Elide aveva sposato Amerigo il figlio primogenito della Cesira e di Adolfo e, come usava a quei tempi, era andata a vivere con la famiglia del marito. Nello stesso nucleo famigliare vivevano anche i due fratelli più giovani di Amerigo, Berto e Carlino e tutti assieme portavano avanti con un contratto di mezzadria  l’attività agricola di un grande podere di proprietà della Curia.

I tre fratelli non si assomigliavano molto sia come fisico che come carattere. Amerigo, ventiquattro anni, era il più grande di età e di fatto in quanto era anche il più alto di statura, aveva una corporatura snella ben proporzionata, ma resa muscolosa dal lavoro manuale, aveva un bel viso maschio illuminato però da due grandi occhi scuri che, stranamente per un uomo, erano contornati da ciglia molto lunghe che donavano al suo volto una espressione dolcissima, era un gran lavoratore sia nel podere che fuori quando i lavori agricoli erano meno impegnativi, si intendeva un po’ di tutto falegnameria, meccanica, muratura e assieme al padre decideva ed organizzava le attività dell’azienda.

Berto, ventidue anni,  il mezzano, era più basso e tarchiato e assomigliava molto alla madre, un po’ grossolano nei modi era un specie di torello che a testa bassa lavorava e sembrava non sentire la fatica, finito il suo lavoro nel podere però amava prendersi il suo tempo libero andando anche all’osteria o a donne. Carlino, diciotto anni era il più giovane, aveva preso da Adolfo e ricordava un furetto: era molto più magro dei fratelli, ma tutto nervi e scattante come una molla, non stava mai fermo ed aveva uno sguardo furbo e intelligente tanto è vero che amava leggere e se glielo avessero consentito avrebbe volentieri proseguito a studiare.

Non stavano male solo perché non pativano la fame almeno se la stagione era stata propizia per i raccolti: avevano farina sia bianca che gialla e di castagne, ammazzavano il maiale, allevavano animali da stalla e da cortile, attorno a casa prosperavano ciliegi, meli, peri, noci e noccioli, coltivavano un grande orto e  una piccola vigna al sole e con il prete, che gestiva per conto della Curia la proprietà, ci si andava abbastanza d’accordo, bastava farsi vedere tutte le domeniche alla Messa e feste comandate e a non assillarlo con troppe richieste o lamentele.

Come tutte le famiglie di quei primi anni cinquanta avevano vissuto e provato gli orrori della guerra, particolarmente dura in quelle zone dell’Appennino bolognese dove il fronte si era fermato per tutto un inverno di fame, paura e privazioni. La Fortuna, il Destino o la Provvidenza avevano rivolto un occhio benevolo alla loro famiglia a differenza di altre toccate da lutti e nera disperazione.

Quando ritornarono dopo lo sfollamento non trovarono nulla di quello che avevano lasciato o nascosto, la porta era sfondata ed era stata fatta razzia di tutto. Adolfo guardò la Cesira e i suoi ragazzi e disse: “Se Dio vól a sén tótt al månd, aven al bràz par lavurèr,  fôrza e curâg’! Dåpp la buràsca as liva sämpér al sàul”

Non c’era certo da sprecare e tutta la gestione domestica, tenuta con mano ferrea dalla Cesira, era improntata a principi di severo risparmio al limite della tirchieria.

An darêv gnanc un Crésst da baśèr a un muribånnd” affermava qualche vicina più pettegola.

La Cesira era “l’azdora”  nel senso più vasto del significato in quanto non si limitava solo al presidio ed al governo della casa e del pollaio, ma comandava a bacchetta anche gli uomini di famiglia in particolare suo marito Adolfo, un uomo mite come un agnello che non alzava mai la voce e che sopportava con pazienza quella sposa che lo aveva affascinato da giovane per l’energia e la determinazione che a lui sembrava mancare.

Gli amici dell’osteria,  le rare volte che lo vedevano entrare per bere un bicchiere e fare una partita a carte, non mancavano di esclamare: “Oh stasira la Cesira l’ha dat al parmàss a Dolfo d’gnir fòra ed cà!”, lui sorrideva divertito e rispondeva: “Al dôn al vólen quâtar cós: un ban maré, avair di bî fiû, vstîr pulîd e purtèr al brègh in cà” per cui la presa in giro finiva quasi subito, anche perché i suoi modi di fare erano sempre improntati a tanta disponibilità, gentilezza e cortesia che nessuno se la sentiva di fargli il minimo sgarbo.

Compensava così a livello famigliare il caratteraccio di sua moglie Cesira ormai conosciuto e temuto da tutti quelli del Borgo ed anche da molti del paese.

Anche l’Elide temeva sua suocera, era entrata in quella casa con l’entusiasmo di una giovane sposa e con tanta voglia di darsi da fare e contribuire al miglioramento della conduzione domestica, ma quando si accorse che miglioramento fa purtroppo rima con cambiamento e che questo sostantivo era particolarmente indigesto alla Cesira, dopo qualche timida presa di posizione, valutando che non avrebbe potuto sostenere a lungo  una logorante battaglia, si arrese al ruolo della nuora arrendevole e ubbidiente. Quando arrivava al limite dell’umana sopportazione si rifugiava in camera o nella stalla a farsi un pianto liberatorio oppure, con la scusa di andare a fare l’erba per i conigli, andava a camminare per i prati. In questo modo riusciva a scaricare la tensione accumulata e a mostrarsi sempre sorridente e disponibile con suo marito. Un’altra donna al suo posto forse si sarebbe lamentata molto di più con il compagno, ma l’Elide amava la pace e la serenità e non voleva scatenare reazioni contro la Cesira da parte di Amerigo, l’unico in famiglia che aveva il coraggio di contraddirla, quindi preferiva “mandare giù” e starsene zitta.

La Cesira, in ginocchio davanti al camino intenta a rimestare la polenta nel paiolo sul fuoco, si girò e squadrando dal basso in alto la nuora le chiese con il solito tono sbrigativo: “Da quanto tempo stai male?”Da oggi pomeriggio, dopo che ho portato in casa il secchio dell’acqua dal pozzo” rispose l’Elide.

E tal dì såul adès?”, si rigirò per finire di cuocere la polenta ed intanto fra sé e sé pensava: “Al gêva me a Merigo! Brisa tola l’Elide, l’è secca cumpâgn un bachètt, brîśa bóna da fèr di cinno”.

Infatti quel matrimonio alla Cesira non era mai andato giù.

Il primo motivo è che l’Elide Degli Esposti era una bastardina, nata e lasciata lì alla Maternità di Via d’Azeglio a Bologna circa ventidue anni prima da una mai identificata madre, cresciuta senza affetti in orfanotrofio dove le era stata impartita comunque una certa e severa istruzione ed insegnato per lo più attività femminili. Quando aveva sedici anni era andata a servizio in casa di una famiglia bolognese benestante che, nonostante il duro lavoro preteso, tutto sommato le si erano anche un po’ affezionati. Questa famiglia, per sottrarsi alla calura della città, nel mese di luglio ed agosto veniva in villeggiatura nel piccolo borgo dove risiedevano i Veggetti ed a qualcuna di quelle feste campagnole alla buona, di solito organizzate durante i mesi estivi, Amerigo aveva incontrato l’Elide e se ne era perdutamente innamorato.

L’Elide possedeva una eleganza naturale nel portamento e nella gestualità che la facevano emergere rispetto a tutte le altre ragazze del posto, una carnagione chiara e lunghi ondulati capelli color del grano maturo che teneva raccolti in un basso chignon, gli occhi di un celeste luminoso avevano la caratteristica in certe occasioni di scurirsi fino a virare al blu, il fisico era sì molto magro come affermava la Cesira, ma con le curve giuste al loro posto che facevano apparire capi di alta moda le poche e modeste cose che indossava, li confezionava  da sola utilizzando qualche scampolo e abbinando con gusto i diversi colori.

Poi parlava in italiano, capiva il dialetto perché nella famiglia in cui serviva conversavano spesso in bolognese, ma in orfanotrofio esigevano che si parlasse solo in italiano e quindi non aveva mai imparato il dialetto.

Come non innamorarsi di una principessa venuta dalla città, anche se poi era solo un’orfana servetta? L’Amerigo la volle ad ogni costo e a nulla servirono le urla e gli strepiti della Cesira e il sentirsi ripetere fino alla nausea “Mogli e buoi dei paesi tuoi”. In una bella sera d’estate, dopo avere ballato con lei un valzer, Amerigo prese il coraggio a due mani e chiese a l’Elide se voleva sposarlo e lei rispose di sì.

La Cesira dovette prenderla persa e si consolò in parte solo perché i datori di lavoro dell’Elide, anche se dispiaciuti di dover rinunciare ai suoi servizi,  le fecero una generosa dote di biancheria, vestiario e materassi e una piccola somma di denaro di benservito.

All’inizio le abitudini di Elide mal si sposavano con quelle della Cesira. Tutto sommato, anche se domestica, proveniva da una famiglia signorile e quindi le avevano insegnato certi raffinati modi di fare che  erano un po’ inusuali in quella famiglia di rustici agricoltori ad esempio l’ossequiosità con la quale l’Elide accoglieva in casa gli eventuali ospiti e che la portavano a servire elegantemente un bicchiere di vino, un liquore o il caffè secondo le regole di un perfetto galateo con tanto di vassoi e centrini inamidati.

Questo era il secondo motivo, “Insàmma, cus’éni tótti ‘sti ziricuclein? Nuèter a sän puvràtt e n’avé brisa témp par dal bagianè” esordiva la Cesira, magari davanti agli estranei facendo vergognare un po’ la nuora.

A volte l’Elide, che aveva imparato alcune preparazioni  particolari dalla cuoca della famiglia presso la quale era a servizio,  avrebbe desiderato farle assaggiare ad Amerigo, ma veniva sempre stoppata dalla Cesira: “Sta’ mò a vedder che bisaggna adruvèr un liter ‘d lät par fèr dla cremma che l’è gnanc Nadèl” e alla timida osservazione dell’Elide che in quel periodo le mucche ne producevano molto sentenziò senza possibilità di appello: “Arcurdév che i é finé i marón a Lâzér ch’al n’avèva trantasî tinâz e na tinèla!”

Le sarebbe piaciuto abbellire la casa con vasi di fiori freschi, ma non si azzardava certo a farlo e quindi si accontentava di metterne qualcuno in un piccolo vaso davanti all’immagine della Madonna sul comò della sua camera.

Con il passare del tempo l’Elide si era rassegnata a quel ruolo di sottomessa, d’altra parte anni di infanzia senza affetti e di duro orfanotrofio l’avevano resa capace di affrontare qualsiasi rinuncia e cattiveria, l’unico giudizio che le interessava era quello di suo marito, perché quando era sola con lui si sentiva avvolgere da tutto il sincero amore che Amerigo provava per lei e che trapelava dai suoi occhi adoranti, solo tra le sue braccia trovava consolazione alle angherie inflittele dalla Cesira e questo le bastava.

La Cesira tolse il paiolo dalla catena del camino e rovesciò una gialla e fumante polenta sul tagliere sopra la tavola apparecchiata, gli uomini stavano entrando  in casa per la cena dopo avere rigovernato le bestie nella stalla ed essersi lavati al pozzo.

Aspettò l’entrata di Amerigo e facendo un cenno verso la nuora gli disse “L’Elide la stà pôc bän!”.

Amerigo guardò l’Elide seduta in silenzio su una sedia di fianco al camino con le mani sopra il ventre gonfio per la gravidanza e vide la sofferenza che ormai aveva stravolto i tratti del suo bel viso e senza pensarci un solo attimo esclamò: “Scendo a Vergato e vado a prendere la Natalina”.

La Cesira con una alzata di spalle sentenziò: “Sarà ‘na colica, stasîra la magna brisa e la và a let con ‘na tigela chelda in vatta al ståmmg e dmatenna la stà méi!

Amerigo non le rispose nemmeno, si rivolse a suo padre e gli disse: “Mi raccomando fate in modo che le lampade ad acetilene funzionino tutte e che ci sia sufficiente carburo, mi sa che stanotte serviranno” poi riprese la gabbana, andò nella rimessa degli attrezzi, inforcò la moto Gilera di seconda mano che gli aveva ceduto il farmacista ad un prezzo di favore dopo lavori da muratore che gli aveva fatto durante lo scorso inverno.

A tutta la velocità consentita dalla strada e dalla vecchia moto scese giù in paese, bussò alla casa dell’ostetrica condotta e le descrisse la situazione. La Natalina, senza alcun indugio, prese al volo la sua borsa e disse: “Molto meglio che io visiti subito l’Elide questa sera e che non stiamo certo a vedere domani mattina se è indigestione come dice la Cesira o qualche cos’altro”. La lunga esperienza e la prudenza maturata in tanti anni di attività di ostetrica condotta le facevano temere che si sarebbe trovata di fronte ad un parto prematuro e l’esperienza le diede purtroppo ragione.

Arrivarono in casa appena in tempo perché dopo pochi minuti si scatenò l’inferno di acqua, vento, fulmini e saette.

L’Elide, nel frattempo, non potendo più sopportare i dolori era salita in camera, la Natalina la trovò alla fievole luce della lampada a carburo che si rotolava sul letto squassata dalle doglie del travaglio, non un lamento usciva dalle labbra chiuse, ma gli azzurri occhi erano spalancati dal terrore e le nocche delle dita erano bianche per la stretta delle mani che stringevano convulsamente le lenzuola.

L’ostetrica le toccò il braccio e le disse sottovoce: “Elide non ti preoccupare, ora ci sono qui io ad aiutarti ed assieme ce la faremo”.

Quando la visitò si accorse che ormai la dilatazione era giunta al massimo e che tra poco sarebbe iniziata la fase espulsiva.

Lasciò Amerigo seduto sul letto accanto ad Elide, scese in cucina e ordinò alla Cesira: “Presto datemi  lenzuola e asciugamani di bucato e mettete immediatamente a bollire l’acqua sul fuoco”.

La Cesira la guardò un po’ strafottente e le rispose: “Avèn fât la bughè e  mûda i  linzôl in ti lèt sàbet, incù l’è martedè,  par mè v à bän cunpâgn!”

Aveva sottovalutato la combattività dell’ostetrica che spalancando due occhi neri che sparavano gli stessi fulmini che saettavano nel frattempo fuori dalla finestra le urlò nelle orecchie: “Cara la mia Cesira, fino a qualche minuto fa qui comandavate voi! Ora volente o nolente sappiate che il padrone del vapore divento io! Fuori asciugamani e  lenzuola pulite dai cassettoni! Fuori dai piedi gli uomini e se vi rimane ancora un po’ di cuore iniziate a pregare la Madonna e Sant’Anna che stanotte  tutto vada bene e se domani mattina sarete costretta a mettere su dell’altra lisciva per il bucato non me ne importa un fico secco! Avete capito tutti? Sono stata chiara?”. L’atteggiamento dell’ostetrica Natalina adirata come una Erinni, con le mani sui fianchi, i capelli neri scompigliati e quegli occhi fulminanti fece sì che la Cesira a testa bassa andò di volata a prendere fuori la biancheria, l’Adolfo si rifugiò nella stalla con le sue bestie e Berto e Carlino non videro l’ora di prendere l’uscio per andare, nonostante la bufera, a veglia in un podere vicino dove abitavano delle interessanti “patozze”.

Con la biancheria pulita la Natalina risalì in camera, pregando in cuor suo di essere all’altezza della situazione e di non dover ricorrere al dottore e disse ad Amerigo di andare ad aspettare giù in cucina.

L’uomo si chinò a baciare la sua Elide, le disse di tenere duro e andò a sedersi davanti al fuoco in silenzio stringendosi la testa tra le mani.

Il parto a differenza del travaglio fu velocissimo anche perché la Natalina in men che non si dica si ritrovò nelle mani un frugolino nato con due mesi di anticipo di poco più di un chilo e mezzo di peso dal colore violaceo e che non piangeva, recise il cordone e legò il moncone e cercò di stimolarlo massaggiandolo e aspirando l’eventuale muco in bocca e nel naso, dopo alcuni secondi di sempre più energici massaggi quell’esserino lanciò uno strillo di una potenza tale da dimostrare al mondo  tutta la sua voglia di vivere.

E’ una femmina… al caldo, al caldo occorre tenerla al caldo” sentenziò la Natalina e si rivolse ad Arrigo che allo strillo acuto di quella figliola nata troppo presto si era precipitato su per le scale “Occorre una cassettina piccola, dove la sistemeremo nella lana più morbida e la circonderemo con bottiglie piene di acqua calda! E’ nata troppo presto, speriamo che riesca a farcela! Questa notte rimarrò qui con voi!

Una volta vestita la sua bimba con i piccoli indumenti che aveva confezionato con tanto amore durante l’estate l’Elide si rese conto di quanto fosse piccolina e di come sparisse dentro a cuffiette, camiciole, golfini e babbucce di lana per lei troppo grandi. Però volle provare ad attaccarla subito al seno e quella boccuccia così piccola si attaccò immediatamente come una sanguisuga iniziando a “tittare” con forza il poco colostro che veniva fuori.

Così prematura, questa piccola ha la forza di un leone, penso proprio che ce la farà! Domani mattina faccio venire il dottore a darle un’occhiata, per ora tienila al caldo, che non prenda assolutamente freddo, vista la stagione”.

Poi la Natalina scese in cucina ed ad una Cesira brontolante disse: “Domani mattina andrete nel pollaio e tirerete il collo alla gallina più grassa che avete e metterete su il brodo, l’Elide deve riprendersi e deve fare tanto latte, quindi cibi nutrienti e poche fatiche, deve accudire vostra nipote che se ce la fa nella prossima settimana almeno per i primi mesi avrà bisogno di tutte le cure  e l’amore che solo una mamma è in grado dare. Avete capito?

La Cesira la guardò e mugugnò: “Quand ajò mess al mand Berto era drî a fèr la pulänt, a sån andà sovra in tla stanzia da lèt, ajò cagà Berto e po’ a sån tornà dsåtta a finir d’armi’sder la pulänt

La Natalina stava per tirarle il collo al posto della sunnominata gallina, ma si rese conto che di fronte all’ignoranza cocciuta non c’è nulla da fare e quindi le rispose: “Una volta erano altri tempi, vostra nuora ha bisogno adesso di tutto il vostro aiuto e quindi dovete rassegnarvi a darglielo, anche perché vi volevo dire che considerata la situazione del parto prematuro io passerò per l’assistenza alla piccola e alla mamma tutti i santi giorni almeno per qualche mese! Quindi a buon intenditore poche parole!

Il mattino dopo Amerigo scese in paese ed andò in Comune a denunciare la nascita di sua figlia e ricordandosi cosa aveva detto la Natalina la sera prima, alla richiesta dell’Ufficiale di Anagrafe su quale nome voleva dare alla bambina affermò con sicurezza “Leonia, si chiamerà Leonia Veggetti”.

Da quel giorno iniziò la storia della Brigida, perché poi da Leonia diventò Brigida lo scopriremo in seguito.

… continua

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