Rita Ciampichetti – La Brigida, cap.8: “Mo cus’êla sta rôba? Al ruglétt di pizón?”
2024/08/12, Vergato – Rita Ciampichetti – La Brigida: Capitolo 8 – Nôz a strangoz: la festa
Un po’ alla volta iniziarono a planare vicino alla chiesa piccoli stormi di colombi che cominciarono a posarsi via via sul tetto della canonica e anche sui rami dei cipressi e degli alberi lì attorno, prima qualche coppia, poi in gruppetti di quattro cinque, fatto sta che nel giro di qualche minuto se qualcuno avesse alzato gli occhi per aria invece di essere occupato a chiacchierare con il vicino, a fare brindisi agli sposi che dovevano ancora uscire o a sgranocchiare zuccherini, si sarebbe reso conto ben presto del numero progressivo di volatili che erano arrivati e osservavano in silenzio la gente sotto di loro, solo qualche esemplare maschio di colombo emetteva qualche timido “gru gru” forse ispirato da una femmina appollaiata a fianco.
Finalmente i novelli sposi uscirono dal portone della chiesa, tutti si apprestarono a salutarli e a festeggiarli, qualcuno tirò anche del riso, la Brigida iniziò a battere le manine urlando con quanto fiato aveva nei polmoni “Viva viva Betto e Danda” ed allora tutti assieme come se avessero ubbidito ad un solo segnale un nugolo di piccioni spiccò il volo dal posto dove erano atterrati e iniziò a volteggiare per il sagrato con sbattiti di ali e un gran tubare, tutti in un primo momento distolsero lo sguardo dagli sposi e volsero gli occhi al cielo, da tutte le parti si iniziò a sentire una serie di esclamazioni: “Mo cus’êla sta rôba? Al ruglétt di pizón?”, “Mo dío mé, che fât lavurîr!” “Un quèl cumpàgn …mai vést in t’la mi vétta..” “L’è cumpagna al pas di favaz a la Lastra in Nëvèmber, ma a sèn in te mèis ‘d gióggn….” quest’ultima considerazione fu fatta dallo zio Icilio che oltre ad essere un impenitente scapolone era anche un formidabile cacciatore di uccelli migratori come colombacci e beccacce.
Fu un vero peccato che un volo così maestoso di uccelli venisse poi guastato da un incidente non da poco.
Alcune di quelle brave bestiole per rendere più leggiadro il volo e le acrobatiche planate ad ali spiegate pensarono bene di liberarsi dall’inutile zavorra che avevano in corpo e quindi iniziarono a “scagazzare” di qua e di là e dal momento che erano numerosi sia i colombi sopra che le persone sotto, molti di quest’ultima specie furono colpiti da quei non certo graditi proiettili volanti che si depositarono senza ritegno su teste e vestiti. Si generò una ulteriore parapiglia fino a quando lo stormo si riunì in branco e come era arrivato sparì.
Le persone ancora frastornate per quello che era successo si interrogavano una con le altre su quello strano evento quando furono distolte dalla voce di zio Icilio che presa in mano la situazione richiamò tutti all’ordine con un deciso: “Adèsa pò bâsta! Viva i spûs! Andegna a fèr la fèsta con i pè sòtta la tèvla o no?”.
L’Elide in tutto quel trambusto aveva osservato in silenzio, senza proferire parola, tutto l’entusiasmo e la felicità della Brigida nel momento del volo corale dei piccioni e notò che quando iniziarono ad allontanarsi per tornare alle loro abituali dimore li salutava soddisfatta aprendo e chiudendo la manina dicendo: “Tao tao cip cip!”, cercò con lo sguardo tra la gente suo suocero Adolfo e quando i loro occhi si incontrarono anche senza parlare si scambiarono con un cenno del capo la certezza che in quello che si era verificato c’era lo zampino della Brigida.
Di quello strano avvenimento se ne parlò per lungo tempo e naturalmente con il passa parola si arricchì di bocca in bocca di nuovi e più sconcertanti particolari tant’è vero che quando qualche anno dopo uscì nelle sale cinematografiche il film “Gli uccelli” di Alfred Hitchcock più di uno spettatore proveniente da quel borgo isolato dell’Appennino fu convinto che il grande regista avesse trovato ispirazione da quell’avvenimento straordinario.
Il corteo degli invitati con gli sposi in testa si avviarono lungo la cavedagna che conduceva al podere dei Veggetti per il pranzo di nozze che venne servito nel magazzino addobbato a festa.
La Pina e la Maria avevano già messo sui tavoli i piatti con dei crostini toscani che l’Elide aveva preparato utilizzando i fegatini dei polli e sui quali gli invitati si buttarono affamati polverizzandoli in un “amen”.
Dalla cucina poi portarono i pentoloni di brodo con dentro i tortellini e li servirono facendosi aiutare dall’Elide che nel frattempo era entrata in casa per indossare un grembiule a protezione del vestito nuovo. Mentre serviva scodelle fumanti di tortellini in brodo sorrise nel sentire alcuni commenti: “Sti turtlén i én prôpi bån… al pén l’è fât con dla rôba bôna e po’ coti in un bån brôd ed capån..na maravajja! ” esclamò Cornelio il postino mentre, tenendosi il tovagliolo davanti per non sporcarsi, risucchiava con gusto tortellini e brodo dal cucchiaio.
“Mò par mé i én un po’ gross, al savìv anca vò che i turtlén pió cén i én, méi l’è e che dantér un cucèr ai n’a da ster sèt” affermò con sussiego una signora un po’ robusta elegantemente vestita ed anche molto ingioiellata seduta accanto a Cornelio, in seguito risultò essere una zia benestante della Iolanda che prima della guerra si era sposata a Bologna con un macellaio di Via Saragozza.
“Quâter, zénc, sî o sèt danter un cucèr par mè l’è l’istèss, e po’ se i én trop cèn csa biasèt? E äl s pèrd tótt al bån savåur de pén , parchè ai n’è tròp pôc dànter un turtlén cinén” poi girandosi e soffermando lo sguardo sulle dita grassocce e inanellate della donna soggiunse: “Sgnåura, li la pôl dîr tótt quall c la vôl, ma vò quanti vôlt n’avì fât di turtlén par èser acsè esperta?”, la signora non rispose e facendo spallucce si girò a parlare con l’altro commensale che aveva accanto.
Vennero poi servite le lasagne preparate a casa Fedeli con la loro bella crosticina in superficie resa croccante dal forno a legna e poi i bolliti con le salse, gli arrosti con le patate e le terrine di insalate miste.
I commensali non davano ancora segno di cedimento alimentare, forse la parte del cervello sede del senso di sazietà continuava in loro ad avere il brutto ricordo della fame patita durante il periodo della guerra quando la carta annonaria non bastava a saziare i bisogni dello stomaco.
Mangiavano e bevevano alzando i bicchieri e facendo gran brindisi agli sposi:
“A voj brindèr a la Iolanda novella spusléñna frassca c’la s’arcórda che dòna afabil, bèl suris, l’é un scamploz ed paradis” le dedicò lo zio Icilio alzandosi in piedi con tutto il panciotto sbottonato.
“Berto invêzi te arcordet sänper che ômen maridè, usèl in ghèbia!” urlarono in coro i suoi amici già parecchio su di giri.
La Giulia che era seduta vicino alla Natalina sospirando le sussurrò nell’orecchio: “Ah purtròp al matrimoni prenzèppia sàmper int al nòmm d’Iddio, e finèss iń quall dal dièvel”.
“Cosa ne sapete voi che non vi siete mai sposata! Auguriamoci bene che questo matrimonio vada avanti come si deve! Viva gli sposi” concluse a voce più alta la Natalina.
Molti iniziarono ad alzarsi dal proprio posto per andare a salutare e scambiare quattro chiacchiere con amici e parenti, anche gli sposi giravano, la Iolanda con le guance rosse come le mele rose romane dopo che hanno preso una brinata, rideva con tutti fino al momento che un applauso fragoroso salutò l’ingresso della torta nuziale.
I Fedeli per la figlia non si erano risparmiati e l’avevano fatta preparare nella migliore pasticceria di Porretta Terme: tre piani di pan di Spagna con ripieno alla crema ricoperti di una candida glassatura e decorati con confetti, roselline di zucchero e ghirigori disegnati con ghiaccia reale, sopra alla torta troneggiava la coppia di sposini in plastica sotto un arco di tulle bianco.
Gli sposi si affrettarono, come da tradizione, a procedere assieme con il taglio della prima fetta della torta e Carlino, che con i primi soldi guadagnati si era comprato di seconda mano una macchina fotografica Zenit, scattò una fotografia.
Questa assieme a quella fatta sul sagrato della chiesa con i parenti e a poche altre avrebbe contribuito a riaccendere i ricordi di quel giorno negli anni a seguire.
Oltre alla torta nuziale per una tradizione proveniente dalla famiglia della Iolanda e precisamente dalla parte materna di origine modenese fu portata in tavola una magnifica composizione realizzata con croccante alle mandorle, i parenti della sposa iniziarono a cantare: “Sposa, bella sposa galante prendi il coltello e spacca il croccante” e la Iolanda raggiante iniziò a fare a pezzi quella dolcissima scultura e a distribuirla a tutti assieme a confetti e zuccherini.
Ormai le portate si potevano dire terminate anche se lo zio Icilio accarezzandosi lo stomaco dilatato proruppe con un: “Da tèvla an t’livèr mai, se la bacca an sa ‘d furmài” al che la Cesira fece un salto in cantina e tornò su con uno dei suoi formaggi stagionati con la buccia rossa di conserva di pomodoro, glielo mise davanti e proruppe con: “Tafiè anc quasst s’avìv curagg!”, “Tótt pò no! Un pzulèn però..” le rispose sganasciandosi dalle risate, al che la Cesira rivolgendosi attorno sentenziò “Savì la mi zant, mi fradel Izélli l’è semper sta lûder cumpàgn un ninén anc da cinno! La povra mama arpiateva la cèv dla cardänza, ma ló l è a la catèva semper e… adio furmài!” e facendo al fratello l’inequivocabile gesto dell’ombrello al braccio, si riprese il suo formaggio ben integro e lo riportò in cantina.
In cucina le donne avevano messo sul fuoco diverse “napoletane” per fare il caffè e mano a mano che veniva su lo portavano alla tavolata e lo versavano nei bicchieri, mentre alcune bottiglie di acquavite distillata in casa di nascosto venivano fatte passare per la correzione.
Dopo avere spostato le tavolate contro le pareti venne fatto spazio per ballare e smaltire un po’ delle calorie accumulate, Gaudenzio e Oreste iniziarono con un valzer, poi una mazurka e la polka e proseguirono per qualche ora non sbagliando un accordo o dando cenno di cedimento, anche Amerigo con l’Elide si diedero alle danze ed assieme erano una coppia perfetta per l’armonia dei movimenti e l’affiatamento. La Brigida per tutto il ricevimento non aveva fatto altro che andare a salutare ad uno ad uno tutti i commensali, poi aveva preferito sedersi accanto alla Natalina, ma il pranzo era troppo lungo e quindi poi aveva deciso di andare fuori nell’aia a giocare con i suoi animali, intanto l’Elide dal portone aperto non la perdeva d’occhio. Quando iniziò la musica la bambina rientrò nel magazzino ed inizio a ballare tra le coppie, fu al settimo cielo quando Amerigo la prese in braccio, cinse con l’altra mano l’Elide e ballarono in tre in un unico abbraccio colmo di reciproco affetto.
Ormai la luna piena di quella notte di giugno era alta nel cielo e illuminava con riflessi d’argento la campagna attorno, l’odore del fieno tagliato impregnava l’aria, le persone più anziane avevano da un pezzo lasciato la festa, mentre i più giovani continuavano a volere ballare, poi Cornelio e Oreste si arresero e dichiararono di non farcela più, ma gli amici chiesero un’ultima suonata ed improvvisarono il ballo dei gobbi con diverse ed anche un po’ indecenti pantomime in onore degli sposi che si ritirarono nella loro camera tra gli sghignazzamenti e le grasse battute degli ultimi amici che come ultima raccomandazione esclamarono in coro: “Arcordet Berto che l’òmen as vargåggna dåu vôlt int la sô vétta: la prémma quand al n é brîśa bån ed fèr la secånnda; la secånnda quand al n é brîśa bån ed fèr la prémma” e poi se ne andarono via cantando a squarciagola:
I fénn un nôz e strangòs
ch’an i avanzé gnanc un òs;
ai avanzé una fatta ed parsótt
che cal låuv dal zio Izélli al le magné tótt!
Rimasero l’Elide e la Cesira a guardare attorno quel che restava di quella giornata e fare mentalmente una rapida valutazione del conseguente lavoro da farsi.
Erano davvero molto stanche per cui per la prima volta si trovarono decisamente d’accordo di chiudere i portelloni del magazzino con tutto quello che c’era dentro e di rimandare al giorno seguente l’impegnativa opera di riordino.
La mattina avrebbe avuto inizio in casa Veggetti la convivenza con il nuovo membro della famiglia: la Iolanda, sposa di Berto.
…continua
Rita Ciampichetti, 2024
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