Borse di studio “Umberta Cristiani” all’ILF Fantini, consegna Dario Mazzini

OLYMPUS DIGITAL CAMERA2015/05/16, Vergato – Giornata di premiazioni nell’auditorium dell’ILF (Istituto di Istruzione Superiore Luigi Fantini) nell’ambito della manifestazione Le Immagini delle Parole, Premiazione della V edizione del Concorso Artistico e Letterario.

Quella che riportiamo è la consegna della Borsa di Studio “Umberta Cristiani”, questa volta non è avvenuta in Comune ma in una scuola, la coordinatrice della manifestazione, la professoressa Sara Ragno ha invitato la professoressa Mila Benini, insegnate storica dell’istituto, a ricordare la figura di Umberta Cristiani Mazzini, il ricordo è andato alla passione di Umberta per la scuola e l’insegnamento, il suo impegno era rivolto ai ragazzi bisognosi. Ha ricordato inoltre la lunga intervista che Le fu fatta proprio da lei con i ragazzi della scuola, su un tema attuale in questo periodo di celebrazioni per il 70° anniversario della fine della guerra; i ricordi degli anni di guerra.

Ha consegnato le 2 borse di studio da 400 euro, il marito Dario Mazzini visibilmente commosso.

Le studentesse premiate:

Brunini Aurora 2 AFM – L’alunna puntuale e precisa, dotata di buone capacità critiche e di analisi e ottime capacità logiche, associa ad un efficace metodo di studio una costante ed impegnata partecipazione all’attività didattica, raggiungendo un ottimo profìtto in tutte le discipline e punte di eccellenza nelle materie dell’are professionalizzante.
Majdouli Kaoutar 2PCP – Studente seria, rispettosa e puntuale nei riguardi dei doveri scolastici, ha manifestato impegno costante durante tutto il periodo scolastico conseguendo risultati positivi in tutte le discipline.

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Abbiamo recuperato quell’intervista dal volume “Esplorando il passato”

Cristiani Umberta, 51 anni, civile.
Quali ricordi ha degli anni della guerra?

Teglia Mirella-Esplor-21 copiaHo il ricordo di mio padre che è partito volontario nell’ottobre del 1940 e lui ha desiderato ardentemente di fare questo perché credeva fermamente di fare il bene dell’Italia, il bene della sua patria. Era una convinzione che non era condivisa da mia madre; lei più realisticamente vedeva che sarebbe stato più giusto restare a casa e non pensare a queste cose che erano un po’ troppo idealistiche e sarebbero rimaste forse, come è stato, un’utopia.
Invece lui ha desiderato partire; anzi, per poterlo fare, siccome apparteneva al Genio Pontieri, essendo geometra, ha dovuto togliersi da questo corpo, per poter partire volontario insieme a un gruppo molto numeroso della nostra zona: gente di Vergato, Castelnuovo, Tolè, Carbona, Grizzana, Pioppe, Marzabotto, insomma della nostra zona. E lui era il comandante di questo gruppo. E son sempre stati tutti assieme, sia a Koriza che a Pogradec. Dopo alcuni mesi dalla sua partenza, però, si è accorto che la mamma aveva ragione e che non era vero quello che avevano detto quando era a casa, cioè che bisognava andare, bisognava partire, per vincere, per far forte l’Italia,., insomma per il bene della patria, per il bene di tutti, eccetera, eccetera…
Invece si è accorto che la realtà era ben diversa, perché i militari dovevano andare in mezzo al freddo, alla neve, in prima linea, a combattere, a rischiare la vita in ogni momento, senza mangiare, senza coperte e senza abiti abbastanza pesanti per coprirsi e riparasi; mentre gli ufficiali e i capi se ne stavano tranquillamente nei luoghi sicuri, nei ristoranti e negli alberghi di lusso, a mangiare quello che doveva andare ai soldati che erano in prima linea, a godere, a divertirsi, a far festini con le donne del luogo e non pensavano minimamente né ad aiutare né a coprire né a proteggere quelli che combattevano e che facevano veramente il loro dovere. Perciò mio padre, a questo punto, decise che non era giusto restare dov’era, perché lui rischiava la vita per persone che non lo meritavano. E scrisse una lettera a casa dove chiedeva alla mamma di preparare i documenti, per avere l’esonero e poter ritornare in patria. Naturalmente questa lettera fu letta e censurata; per questo gli fu revocata la licenza che già aveva e gli furono dati anche quindici giorni di prigione di rigore. Perciò, in più di due anni che lui è stato via, è potuto venire a casa una sola volta: a Natale fra il ’41 e il ’42, per dieci giorni. È stata l’unica volta che lui è venuto a casa. In questi pochi giorni che è rimasto in patria ha firmato tutti i documenti che servivano e, benché la mia mamma insistesse perché lui non ripartisse, ha voluto dimostrare di non essere un inboscato, anche per rispetto nei confronti dei suoi amici e compagni che erano là, ed è ritornato al fronte, sperando che l’esonero arrivasse il prima possibile, perché lui non si sentiva più di stare dov’era, perché non aveva più lo spirito adatto per continuare una strada come aveva intrapreso.

Teglia Mirella-Esplor-19 copiaDopo alcuni mesi, quando ormai stava per giungere l’esonero perché era già stato firmato e approvato da tutti, verso il 20 maggio del 1942, in uno scontro con i ribelli albanesi, lui era sopra una camionetta e un colpo d’arma da fuoco ha fatto scoppiare una gomma. Erano in una strada strettissima di montagna con da una parte il burrone e da una parte il monte. Quindi l’autista ha perduto il controllo della camionetta e stavano per andare tutti giù nel burrone, sarebbero morti tutti. Allora mio padre ha dato un colpo all’autista, ha preso il volante ed è riuscito a mandare la camionetta contro la montagna in modo che si sono salvati quelli che erano sopra. Però la camionetta si è rovesciata e lui è rimasto schiacciato sotto. Quindi si è rotto entrambi i malleoli e i piedi che, se veniva in Italia glieli dovevano tagliare, uno almeno sicuramente; e si è schiacciato il torace. Nel momento non è morto, anzi è rimasto cosciente, ha continuato a scrivere anche a casa, dicendo che si era storto una caviglia, per non spaventare la mamma. Però lui voleva tornare in Italia il più presto possibile perché là, negli ospedali da campo, non c’era quello che doveva esserci per poterlo curare. Ha chiesto anche di pagare un aereo, se glielo avessero concesso, ma il Comando non gliel’ha concesso e gli ha detto che doveva aspettare la nave ospedaliera. E l’hanno portato dalla montagna giù a Koriza, vicino al mare. Forse, essendoci le strade dissestate, ha preso parecchie scosse, aveva tutte le ossa delle gambe fratturate anche in piccolissimi frammenti…. non so cosa possa essere stato, comunque, appena è arrivato a Koriza, che stavano per caricarlo sulla nave ospedaliera, è partito un embolo, gli è arrivato al cuore e in un attimo è morto improvvisamente. Quindi il 2 giugno del ’42 è deceduto in seguito a queste ferite. Gli hanno fatto il funerale là e l’hanno riportato su a Pogradec dove si trovava il suo plotone. L’hanno sepolto in un cimitero da campo che lui stesso aveva disegnato e progettato, essendo geometra. I suoi compagni qui di Vergato hanno portato alla mamma tutti i dati relativi alla località dove si trovava il cimitero, il numero della tomba, il numero della fila, insomma tutti i dati esatti per rintracciarlo. Infatti, anche se solo dopo 22 anni, perché in un primo momento il Governo diceva: «Non si può» e ci sono state parec-chie difficoltà; però dopo 22 anni siamo riusciti a riportarlo in patria e ora è qui nel suo cimitero insieme a tuttigli altri suoi familiari.
Teglia Mirella-Esplor-20 copiaLei era bambina durante la guerra. Ricorda qualche episodio della sua vita di allora?
Il primo ricordo personale che io ho della guerra è il bombardamento di Vergato del 27 novembre 1943. Ricordo esattamente che era un sabato e io ero a letto ammalata. La mamma arrivò di corsa in camera e mi disse: «Vieni! Vieni a vedere gli apparecchi!» E mi fasciò in un mantello e mi portò contro la finestra a guardare gli apparecchi che passavano bassissimi sopra di noi. Anzi disse: «Poveri Bolognesi, anche oggi vanno a bombardare!» Invece, quando arrivarono vicino al Monte di Salvaro, c’erano tre formazioni che fecero una cosa stranissima: una si abbassò improvvisamente e bombardò la Lama, un’altra girò di lato e andò in Pian di Setta, la terza formazione ritornò indietro e si abbassò di colpo verso di noi, che mi sembra ancora di vederli adesso gli apparecchi che vengono incontro bassi bassi. Allora mamma dice: «Bombardano qui, scappiamo!» Quindi con me in braccio stretta cominciò a correre giù per le scale e scendemmo di corsa in giardino. Intanto che arrivammo in giardino, c’era un signore che abitava qui da noi, Enrico Dondarini, che è morto di 95 anni l’anno scorso, che disse: «Signora, signora, scappi, venga qui con la bimba, per l’amor di Dio, perché hanno già sganciato le bombe». A questo punto, sentendo così, io alzai gli occhi e vidi come tante bottigline nere che venivano giù nel cielo; però io non lo capii che quelle bottigline erano bombe. Ci stendemmo a terra, sotto una siepe e rimanemmo lì fermi. Poi si cominciò a sentire dei bussi tremendi, con tutta l’erba che tremava e la terra che tremava sotto di noi. Durò così, non so quanto, a me sembrò lunghissimo… una cosa tremenda. Quando riuscimmo a muoverci, c’era tutta una gran polvere che sembrava nebbia, non si vedeva niente niente attorno. Si sentivano tanti urli di disperazione, di dolore, tutti dei rumori come quando continua a crollare qualcosa. Allora noi fuggimmo per il campo che abbiamo di fronte a casa, verso casa Bertocchi. Nell’attraversare la strada Nazionale ricordo che passarono due militari che avevano una scala che faceva da barella con sopra un ferito coperto con un paletò di cui si vedevano i piedi. Mi è rimasto impresso i piedi. Noi stemmo tutto un giorno su per un fosso, perché gli aerei continuavano a passare e mitragliavano. Quindi rimanemmo lì nascosti. Poi nel pomeriggio ritornammo giù e trovammo un disastro: nella nostra zona della Campana c’era la nostra casa… Le altre… in fondo alla strada si vedevano tutti i muri incastrati l’uno nell’altro in mezzo alla strada. E nella curva ci furono una quarantina di morti, ne morirono tantissimi perché nessuno si aspettava che bombardassero. Tutti guardavano in su e le bombe li presero alla sprovvista. Casa mia è stata molto rovinata anche perché gli Americani si erano sbagliati: pensavano che fossero le scuole elementari dove c’era il Comando della Milizia. Così le scuole furono bombardate meno e bombardarono di più casa mia, perché si erano sbagliati essendo molto vicine. Dopo sfollammo e… a questo punto ci sono gli episodi dopo che iniziò l’occupazione Tedesca, che è stata tremenda, anche se io l’ho vissuta da bambina; ma forse la ricordano più i bambini che gli adulti perché rimane più impresso. Un episodio che proprio mi ha sconvolta può essere quando i Tedeschi facevano i rastrellamenti e durante une di questi arrivarono in una casa e trovarono solo delle donne. Era a Buda di Rodiano e, trovando solo alcune donne, dissero: «Voi qui tenete i banditi». I banditi sarebbero poi stati i partigiani. Loro dicevano: «No, non è vero. Qui siamo solo noi, non c’è nessuno!» Invece c’era un gruppo di partigiani, ma più che altro erano proprio i loro uomini che andavano nei boschi durante il giorno e alla sera ritornavano a casa. In quel momento se ne erano trovati lì e erano nel fienile nascosti. E c’era stato chi l’aveva detto coi Tedeschi. Però loro cercavano dappertutto e non riuscivano a trovarli. Allora mandarono fuori le donne d’in casa e dissero: «Noi vi uccidiamo se non ci dite dove sono i banditi!» E loro: «Non lo sappiamo, perché qui non c’è nessuno!» Intanto io e la mamma eravamo nella casa vicina e volevamo andare lì a fare una passeggiata. Quindi, attraverso il bosco, stavamo dirigendoci su questa casa tranquillamente. Solo che cominciammo a sentire il rumore delle armi e gli urli dei Tedeschi e allora ci nascondemmo. Mia mamma mi prese sotto, come faceva sempre, che nascondeva e copriva me. Però si vedeva la casa perché eravamo proprio lì vicino.

Quindi vedemmo i Tedeschi quando misero queste donne in fila e poi dicevano: «Vi uccidiamo se non dite dove sono i banditi!». Anzi dissero: «Va bene, non lo sapete. Allora adesso bruciamo la casa, perché a voi non interessa mica niente, se non c’è nessuno dentro!». E con delle fascine accesero tutto il fuoco intorno alla casa. Solo che, man mano che bruciava, quando il fuoco arrivò nel fienile, gli uomini che erano lì nascosti, diventarono torce ardenti e cominciarono a lanciarsi giù dal fienile con dei grandi urli. Quindi si vedevano queste torce umane cadere giù… e bruciarono, morirono tutti, così. Adesso non mi ricordo se erano quindici o venti, ma morirono tutti. E questo fu appunto l’inizio di quella che poi fu la strage di Marzabotto, perché da questo posto i Tedeschi scesero a valle e salirono dall’altra parte. È un episodio che mi ha dato molto fastidio e lo ricordo ancora «male»… non si possono dimenticare queste cose. C’è anche un’altro episodio che non potrò mai dimenticare e che mi ha lasciato il segno, perché tutte le volte che sento un temporale, lo collego con la guerra, il sangue, i Tedeschi… È stato quando un ufficiale tedesco, che secondo il mio punto di vista potrebbe essere Reder, a Tolé, si presentò a casa Tonio, dove eravamo sfollate io, la mia mamma e altre persone di Vergato, a cercare delle donne perché andassero a pelare le patate al Comando. La mia mamma, essendo giovane, cercava di stare in disordine per non farsi notare. Quando la vide, lui disse: «Tu domani vieni a pelare le patate». E lei rispose che aveva una bimba piccola. Dis-se: «Ma la tua bimba la puoi lasciare qui e tu vieni su a Tolé domani». Solo che la guardò a modo e poi disse: «Tu, se ti lavi e poi ti vesti a modo sei giovane! Sei anche bella! Quindi tu non vieni a pelare le patate, tu vieni a fare la mia camera!». Fare la sua camera voleva dire che lui voleva tenerla con sé. La mamma a questo punto disse: «Io devo scappare, non posso restare qui». Quindi, senza dire niente a nessuno, perché potevano anche andarlo a riferire, la notte, quando tutti furono a letto, io e la mamma da sole scappammo. C’era un temporale tremendo: lampi, tuoni, pioggia. Scendemmo giù a Tolé verso un torrente che si chiama Ghiaia e qui ci trovammo una guardia tedesca che era vicino al ponte che noi avremmo dovuto attraversare e che ci diede l’alt. Allora la mamma disse: «Siamo una povera donna e una bimba che scappiamo e non sappiamo cosa fare». Allora lui fu buono, disse che il suo comandante era tanto cattivo e che ci avrebbe aiutati; però non poteva spostarsi da lì, in quanto doveva eseguire un ordine. Quindi ci aiutò a passare il ponte che era già coperto dall’acqua; poi dall’altra parte disse: «Andate più lontano che potete, però io non posso più aiutarvi. Qui ormai succederanno cose bruttissime, perché la guerra per noi è perduta e quindi i nostri capi hanno l’ordine di distruggere tutto, di fare terra battuta, di uccidere le persone, di bruciare le case… insomma distruggere tutto intanto che ci ritiriamo, senza lasciare niente per gli Americani. Perciò cercate di allentarvi più che potete». Ma noi girammo tutta la notte e la mattina, quando venne giorno, ci accorgemmo che avevamo sempre girato intorno e praticamente eravamo poco distante. Perciò arrivammo in una casa, chiedemmo se ci ospitavano, ma loro risposero che c’era già tanta gente e che proprio non potevano.

Quindi proseguimmo e arrivammo a Santa Croce sotto Zocca. E lì trovammo una famiglia che era la maestra del luogo, che ci accolse in casa. La mamma non disse chi era perché, dicendo chi era, tutti correvano lì… chi perché dicevano che era la moglie di un fascista, chi perché voleva sapere dov’era suo cognato che era il gerarca…. e per tanti motivi per cui lei non disse chi era e fece la donna di servizio alla signora. Però in quel momento, per poco tempo, vivemmo in pace. Solo che, dopo poco, nella casa vicina c’erano dei Vergatesi, ci videro e lo dissero chi eravamo. Perciò, nella casa del parroco, che noi non lo sapevamo nemmeno, c’erano anche la mia nonna e la mia zia; allora vennero con noi anche loro. Ma ormai era già la fine della guerra, erano proprio gli ultimi tempi. Infatti una sera si cominciò a vedere i Tedeschi che correvano. Noi conoscevamo dei partigiani, c’era un capo che era amico di mia mamma e una sera ci hanno detto che ormai erano in ritirata. I bombardamenti diventavano sempre più tremendi, i cannoneggiamenti erano continui appunto perché eravamo in prima linea. Allora noi scappammo in un rifugio con tante altre persone. Intanto che eravamo lì, arrivò questo capo partigiano della zona che disse: «Scappate tutti perché stanno arrivando i Tedeschi e uccidono tutti i civili che trovano». Nessuno gli credette, cominciando dalla mamma che nonvoleva andare con lui. Allora lui disse: «No, voi altri fate come volete, ma la signora e la bimba le prendo con me, perché la signora non capisce il pericolo che c’è». E mia madre a dire: «No, io non vengo». Allora lui, per farla andare, prese all’improvviso me sotto un braccio e mi portò via. Allora la mamma gli corse dietro per riprendermi. Arrivammo nel bosco sopra l’imboccatura del rifugio intanto i Tedeschi arrivarono e uccisero tutti quelli che erano dentro al rifugio. E quindi noi ci siamo salvate per cinque minuti, perché quel ragazzo lì ci ha portato via con la forza. Dopo disse: «Venite con me che vi porto dai miei compagni-, tanto ormai entro domattina al massimo, qui ci sono gli Americani». Corremmo più che si poteva ma arrivammo a metà della strada che vedemmo sbucare i primi Tedeschi. Allora lui che era pratico perché abitava lì (eravamo a cento metri da casa sua) sapeva che c’era un tombino sotto la strada. Disse: «Ci buttiamo sotto questo tombino e poi, quando sono passati i primi, ritorniamo via».

Quindi andammo nell’acqua, stesi sotto il tombino, con i topi di fogna addosso, e non si poteva urlare perché si sentivano i passi dei Tedeschi sopra la testa, e poi i carriarmati e i camion che ci passavano sopra. Siamo stati lì tutta la notte, perché non erano i primi Tedeschi, erano tutti i Tedeschi in fila, tutta la ritirata al completo. All’alba si è sentito un gran silenzio; allora pian piano siamo usciti e poi dopo siamo andati verso le case dove sapevamo che ci dovevano essere le persone. Intorno non si vedeva niente, sembrava tutto vuoto, disabitato. Noi pensavamo: «Hanno ucciso tutti». Invece, quando bussammo alla porta, c’erano tutti perché ormai i Tedeschi sapevano di aver troppo vicini gli Americani, scappavano in fretta e si erano salvati tutti. Vennero fuori e sempre quel partigiano disse: «Trovatevi ognuno qualcosa di bianco: una tovaglia, un asciugamano, un fazzoletto, insomma qualcosa di bianco, perché, come arrivano gli Americani, dovete sventolare del bianco; seno anche loro vi sparano, perché non sanno mica chi hanno davanti». Quindi mi ricordo che anch’io avevo un fazzolettino che sventolavo forte e tutti avevano qualcosa di bianco in mano. A metà mattinata sentimmo del rumore dalla parte della strada, ci mettemmo tutti lì a guardare e il primo che vedemmo spuntare fu un negro. Me lo ricorderò sempre! Era un negro e dopo si scoprì che erano poi i Brasiliani. Noi sventolammo le nostre cose bianche e loro arrivarono e ci diedero da mangiare… che era tanto che aspettavamo! Cioccolato, gallette, tante cose…. come li accogliemmo volentieri! Avevamo una fame! Poi praticamente dopo siamo ritornati a casa ed è cominciato il Dopoguerra, che non era bello neanche quello, perché c’era da ricostruire e tanta miseria. Anche gli animi erano diversi, proprio esacerbati, distrutti, inariditi dalla sofferenza. C’era proprio dell’odio, direi, anche se in certi casi era giusto, perché le cose brutte erano state tante, perché la guerra civile è terribile. Sono cose tremende che lasciano il segno… però qualcuno le ha volute.Quale messaggio si sente di lasciare ai ragazzi d’oggi a proposito della guerra?
La guerra è una cosa terribile. Io dico che si deve cercare assolutamente di non far mai più venire delle guerre. Occorre la pace, la discussione anche, ma il dialogo, per cercare di comprendere le idee degli altri. Perché con la guerra, con la lotta armata non si risolve niente. Invece, perché il mondo vada avanti, occorre sì distruggere quello che è sbagliato, ma sapendo già quello che si vuole ricostruire. La guerra porta solo odio, rancore, distruzioni, danni e niente più. Quindi bisogna dire un totale e
assoluto NO alla guerra.

Lettera inviata il 30/1/41 da Mario Cristiani, che era volontario in Albania, alla moglie per comunicarle tutta la sua delusione per il regime e la guerra, che stava combattendo. Come si può notare la censura ha cancellato dal testo le parti più «compromettenti», ma rimane comunque a sufficienza per capire i sentimenti e il disagio di chi scriveva. Leggiamo a partire dalla terza pagina: «Scusami questo sfogo, ma questa mattina rileggendo la corrispondenza che mi era giunta precedentemente al mio ricovero all’Ospedale, sono rimasto, pensando ai sacrifici che abbiamo fatto noi e che faremo in seguito, molto male, e sentendo […] dire «Vorrei essere con te a fare il mio dovere come ardentemente desidero, ma la gamba…». […] altrettanto «Col cuore ti seguo io ed i miei collaboratori sui campi dell’onore» ma intanto sono lì al caldo e alla notte dormono in un soffice letto e ben coperti e noi invece in una tenda scavata nel terreno e per materasso una bracciata di foglie e per cuscino l’elmetto e senza nemmeno potersi togliere il cinturone e con le bombe in tasca per essere pronti al minimo allarme; ma questo mi piace e lo faccio volentieri e non vedo l’ora di potermi di nuovo riunire ai miei legionari e lì certo si respira una buona aria; altro che il fango e il putridume di Vergato».
Da notare che tutta l’ultima parte riporta lateralmente una linea di censura, ma evidentemente questo è sfuggito al cancellatore e quelle righe sono rimaste. Inoltre, per espresso desiderio della Signora Umberta Cristiani, sono stati omessi e cancellati nomi e sostituiti con […].

 

 

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