Rita Ciampichetti – La bella lavanderina…

2022/05/02, Vergato – La bella lavanderina… Un racconto breve di Rita Ciampichetti.

Eccomi qui.. di fronte alla mia nuovissima lavatrice multifunzione, forse anche troppe, in procinto di “fare il bucato”. 6th Sense.. la scritta sul pannello dei programmi è fonte di lusinghe ed interrogativi: sesto senso…. mi viene in mente il famoso film con protagonista Bruce Willis e quel bambino triste che vedeva e parlava con i morti che non sapevano di esserlo.

Aqua Eco, Freshcare, Business… i programmi da scegliere per lavare qualsiasi tipo di tessuto sono stati previsti e non mi rimane che prendere in mano il libretto delle istruzioni per decidere. Alla fine dò un’occhiata esaminatrice al mucchio di roba da lavare, la metto dentro il cestello, scelgo il programma eco-cotone, verso nelle apposite vaschette la dose di detersivo e ammorbidente, ripensandoci riapro il cestello ed infilo anche  il foglietto “acchiappacolore” perché non si sa mai e spingo il pulsante avvio. Sul display appare il tempo di durata, tre ore e mezza circa! Per una a me incomprensibile legge fisica queste lavatrici ad alto risparmio energetico impiegano un tempo biblico per fare un semplice programma di lavaggio quando è preceduto dal suffisso Eco.

Io sono nata nel 1957 quindi in un periodo in cui questo insostituibile elettrodomestico non era ancora molto diffuso nelle famiglie, solo con il  boom economico degli anni ’60 e ’70 la lavatrice ebbe una considerevole  diffusione nelle case grazie al prezzo di acquisto più abbordabile.

I ricordi dei tempi senza lavatrice sono tantissimi quando il  lavaggio di panni e biancheria era una attività domestica faticosissima che poteva impegnare giornate intere e che ha dato in passato occupazione a generazioni di donne che hanno mantenuto la famiglia lavando per conto di altri a prezzo di grandi sacrifici e sofferenze fisiche.

Un aspetto da tenere presente, specialmente per le nuove generazioni,  è quello che essendo un’attività così impegnativa ovviamente il cambio dei vestiti e della biancheria non era così assiduo come al giorno d’oggi che laviamo ugualmente capi ancora puliti.

Allora non  ci passava nemmeno per l’anticamera del cervello di tornare a casa da scuola o da una passeggiata, svestirci e mettere tutto nel portabiancheria. Il vestito si cambiava una volta alla settimana e quando rientravi a casa da scuola, tolto il grembiule scolastico, indossavi quello di casa e se ti sporcavi erano severe sgridate.

Le lenzuola del letto solitamente venivano lavate una volta al mese. Mia mamma aveva una grande contenitore di zinco con una specie di tubo in mezzo, ricordo che prima bagnava e insaponava le lenzuola, poi le disponeva arrotolate dentro al contenitore con l’acqua e una polvere sbiancante chiamata Bucaneve, lo chiudeva con il coperchio e, aiutata dal babbo per il peso,  lo metteva a bollire sulla stufa economica, l’acqua bollente risaliva il tubo e ricadeva sulla biancheria, ogni tanto la mamma apriva il coperchio e con un bastone spingeva in fondo le lenzuola che salivano. Poi le andava a sciacquare quando abitavamo a Porretta nel Rio Maggiore e a Vergato nel canale che scorreva nel cortile di Casa Gentilini o in Vergatello.

Per chi non lo sapesse il paese un tempo era attraversato da un canale. Chi oggi percorre il sentiero che costeggia il torrente Vergatello e che sbuca al ponte delle Fornaci può vedere, quasi al termine del percorso, l’opera idraulica di presa delle acque dal fiume che alimentavano il canale che, dopo avere percorso via Minghetti, attraversava interrato il paese ed andava a fornire la necessaria forza motrice ai mulini di  Via Bacchetti prima di scaricare in Reno.

Nel cortile di Casa Gentilini il tratto di canale era scoperto e le donne del palazzo spesso andavano a lavare o a sciacquare, tanto è vero che vicino era stato predisposto una specie di focolare per scaldare l’acqua.

Quando avevo circa otto anni finalmente anche in casa nostra fece la sua comparsa la lavatrice, una Candy, per un certo tempo la mamma la utilizzò esclusivamente per il bucato della biancheria ostinandosi a lavare a mano gli indumenti da indossare, in parte con giusta ragione in quanto le lavatrici di allora non erano particolarmente predisposte per lavaggi delicati.

Però le informazioni più interessanti sugli usi e costumi del passato le ho apprese interrogando la nonna di mio marito chiamata dalle mie bimbe “la nonnina”.

L’Emma Veggetti detta Maria, classe 1889 in effetti  era proprio una nonnina: piccolina, magra magra, vecchia vecchia, con il classico “puppino”, sempre vestita di nero o di grigio.  

Era molto riservata e silenziosa e trascorreva il suo tempo a leggere nella sua camera ammobiliata con arredi antichi circondata dai suoi ricordi o seduta in cucina vicino alla stufa sopra una piccola sedia impagliata.

Alla domanda: “Maria ma ai vostri tempi come si faceva il bucato?” rispondeva: “L’era ‘na fazanda dimónndi brigau’sa, c’aj vléva almànc trî dé! As druveva la lisciva e dl òli d gåmmt” ed iniziava a raccontare ed io ad ascoltare con interesse perché quando più nessuno sarà in grado di ricordare e raccontare un pezzo della nostra storia verrà perduto per sempre.

Allora non c’erano tanti detersivi, detergenti, ammorbidenti, sbiancanti, azzurranti, additivi si usava quello che la natura offriva e la liscivia era un ottimo detergente fatto in casa utilizzato per lavare.

Si otteneva trattando con acqua bollente la cenere di legno ed allora ce n’era tanta ed anche completamente gratis perché si utilizzavano solo stufe e camini per scaldarsi e cucinare. La cenere contiene grandi quantità di carbonato di sodio e di potassio e versandovi sopra l’acqua bollente si ottiene una soluzione alcalina contenente circa un 33% di idrossido di sodio o  idrossido di potassio chiamata liscivia, forse perché scivolosa al tatto con forti proprietà pulenti, sgrassanti e sbiancanti.

Pertanto a quei tempi qualche giorno prima della data in cui l’arzdoura della casa aveva stabilito di fare il bucato si iniziava a mettere da parte la cenere del camino o della stufa riponendola in un secchio di metallo. La cenere doveva essere priva di parti incombuste e preferibilmente essere molto fine e bianca e veniva perciò setacciata per eliminare le piccole scorie.

Il giorno stabilito per l’inizio delle operazioni si prendevano le  lenzuola, i canovacci e le tovaglie della cucina e gli asciugamani di solito di robusta canapa e si componevano dentro un mastello o in una tinozza. Si copriva poi  il tutto con un vecchio lenzuolo e sopra veniva sparsa la cenere che non doveva essere assolutamente  a diretto contatto con la biancheria.

Nel frattempo erano stati messi sul fuoco i paioli con l’acqua solitamente andata a prendere con fatica ai pozzi, alle fontane o nei fossi perché quella corrente in casa non c’era. Quando l’acqua bolliva la si versava nel mastello fino a riempirlo.

Il mastello veniva poi coperto con delle assi di legno per evitare che il liquido si raffreddasse troppo velocemente e i panni venivano lasciati in ammollo per tutto il restante giorno ed anche per la notte.

Il giorno seguente, di buon’ora il bucato veniva tolto dal mastello e strofinato ulteriormente con il sapone fatto in casa su una tavolozza di legno, si riponeva poi dentro a delle ceste e si procedeva con la lunga e meticolosa operazione di risciacquo che solitamente si svolgeva al lavatoio pubblico, se era presente, o nel fosso o al fiume Reno dove a quei tempi scorrevano acque pulite.

La Maria raccontava anche che l’acqua del mastello dove era stata in ammollo la biancheria le donne la utilizzavano anche per lavarsi i lunghi capelli che diventavano lucidi e splendenti grazie alla proprietà pulente della liscivia.

Nei panni purtroppo nonostante il filtraggio rimanevano tracce della liscivia sotto forma di puntolini neri e quindi l’operazione di risciacquo doveva essere molto accurata e la biancheria doveva essere sbattuta con forza sopra le pietre del lavatoio o le assi di legno.

Per togliere l’eccesso di acqua poi era necessaria una certa forza in quanto ad esempio le lenzuola matrimoniali di una volta erano costituite da pesanti  teli di cotone o canapa della larghezza del telaio dove erano stati tessuti e pertanto venivano cuciti assieme. Solitamente occorreva l’intervento di due donne che, stile tiro alla fune, tenendoli stretti fra le mani li strizzavano  facendoli girare in modo opposto.

Il bucato diventato bianchissimo grazie alle proprietà della liscivia, veniva poi steso per l’asciugatura sui fili o addirittura sul prato o sopra le siepi ed una volta asciutto poteva essere stirato con un ferro da stiro pesantissimo alimentato dalla carbonella accesa e successivamente riposto negli armadi o nei cassettoni profumati con le spighe di lavanda o le foglie di alloro.

La Maria di solito sospirando alla fine aggiungeva: “I  linzôl acsé pulîd a lèt i fèva un prufómm… d’alàura pió sintó”.

Con la bella stagione c’era da mettere in conto solo l’impegno e la fatica, d’inverno con il freddo si aggiungeva il problema dell’acqua ghiacciata, ma le operazioni di lavaggio occorreva comunque eseguirle.

Tempi duri per le donne che comunque riuscivano a trovare una occasione di socializzazione e svago con le altre in qualsiasi attività svolta per quanto faticosa potesse essere.

Pensate al piccolo universo squisitamente femminile che si creava nei lavatoi pubblici, in cui tra una insaponata ed una  sbattitura di panni si scambiavano consigli, si sussurravano pettegolezzi, si condividevano gioie e dolori, si discuteva, si confidavano segreti tra lo scrosciare dell’acqua e le bolle di sapone, a quei tempi non esistevano sedute di psicoterapia e il solo potere raccontare le proprie preoccupazioni ad un’altra donna anche se per il breve tempo della lavatura della biancheria poteva essere uno sfogo per dare un po’ di sollievo ad una vita difficile.

Per me il modo di dire “i panni sporchi si devono lavare in casa” deve averlo detto qualche uomo che temeva il diffondersi delle magagne della propria vita famigliare ai lavatoi o al fiume da parte delle donne di casa.

Ricordo che anche a Vergato c’era un lavatoio pubblico, era ubicato sotto al ponte dell’Ospedale dove ora c’è il parcheggio. Era una struttura coperta con diversi lavatoi con acqua corrente e,  se ricordo bene, la possibilità anche di scaldare l’acqua.

Le donne arrivavano con le bacinelle e i secchi della biancheria sporca che una volta lavata, veniva stesa nei fili lungo il muraglione del Vergatello che è stato demolito per costruire il percorso pedonale.

La bella lavanderina che lava i fazzoletti

Per i poveretti della città

Fai un salto, fanne un altro

Fai la giravolta, falla un’altra volta

Guarda in su, guarda in giù

Dai un bacio a chi vuoi tu

Cantavamo da bambine, certo che in passato le donne che facevano le lavandaie di mestiere conducevano una vita veramente difficile.

Lavare ceste e ceste di panni in ginocchio sulla pietra nei fiumi o semi immerse nei canali o in piedi nel lavatoi pubblici sotto al sole o al gelo secondo le stagioni, senza l’utilizzo di guanti a insaponare, sbattere, sfregare, strizzare per giornate intere dall’alba al tramonto, asciugare e ripiegare la roba e consegnarla al proprietario per un compenso di poche lire deve avere limato e compromesso la salute di tante donne soggette nel corso del tempo a malattie come l’artrite o quelle polmonari.

La nostra città di Bologna, in passato ricca di canali utilizzati per la florida industria manifatturiera della seta, contava numerosissime lavandaie che occupavano in più punti le rive del canale di Reno, attività oggi testimoniata i dalle tante fotografie storiche.

Lavoravano duramente per i privati e spesso assumevano per forza di cose posizioni giudicate sconvenienti quali le gonne alzate oltre alla fisicità dei movimenti del lavare che possono dare adito a molte fantasie. In un periodo storico in cui il corpo femminile era una cosa da nascondere, molti osservatori si posizionavano in punti strategici per “guardare” il lavoro delle povere lavandaie che, concentrate in quello che stavano svolgendo, se troppo molestate reagivano urlando imprecazioni con il risultato di venire poi considerate donne rudi ed anche maleducate..loro!

Il canale più frequentato era quello di via della Grada, in quanto era il punto in cui l’acqua del Reno entrava in città e quindi era ritenuta più pulita.

In una aiuola all’incrocio tra via San Felice e via della Grada è stato installata la scultura “La lavandaia” dell’architetto Saura Sermenghi dedicata a tutte quelle donne che hanno svolto quel duro lavoro. Come tutte le opere artistiche intrise di simbologie ha dato adito a critiche e proteste, ma a mio parere prima di giudicarle occorre conoscere e metabolizzare le motivazioni dell’artista.

Concludo con una riflessione molto personale: toglietemi il forno, faccio a meno della lavastoviglie, il robot da cucina non mi è indispensabile e nemmeno l’aspirapolvere, ma guai a chi mi tocca la lavatrice, per precauzione ne possiedo due!

Rita Ciampichetti 2022