Rino Nanni: Ricordi di guerra – Al Casone di Sopra dopo il grosso bombardamento dell’agosto a Vergato, trovò spazio anche il Prete, don Pasi…
2023/01/26, Vergato – Gli anni di guerra a Vergato ricordati da chi li ha vissuti. Bombardamenti, sfollati, tedeschi e partigiani, vita da contadini e…
GLI ANNI DI GUERRA (6-16)
Il periodo della guerra fu certamente duro per tutti. Forse per noi lo fu un po meno per varie ragioni.
Non avevamo nessun componente della famiglia sotto le armi, eravamo mezzadri e non soffrivamo la fame anche se molti generi alimentari mancavano, abitavamo una casa isolata a due chilometri dal centro di Vergato ed eravamo quindi relativamente più tranquilli per i continui allarmi.
Al Casone di Sopra eravamo andati ad abitare nel 1942, proprio quando le cose stavano peggiorando. Il podere rendeva abbastanza bene tanto che quando fummo portati via, abbandonammo molto grano che
avevamo collocato nei due silos vicini alla stalla, 11 capi di bestiame, 13 maiali e tutti gli animali da cortile. Il granoturco non l’avevamo raccolto dai campi (lo raccogliemmo nell’aprile dell’anno successivo e fu considerato molto migliore rispetto al normale periodo di raccolta), avevamo vino in cantina e le normali attrezzature di casa.
E’ ovvio aggiungere che quando tornammo, nell’aprile ’45, non trovammo più nulla: né un capo di bestiame, né vino, né mobili, biancheria od altro. Era rimasto solo il granoturco nel campo e il grano in fondo ai silos, in parte marcito perché i coperchi furono fatti saltare con l’esplosivo, ma in parte venne fortunatamente recuperato. Durante l’inverno ’44 – ’45 i tedeschi che avevano occupato la casa se la passarono bene consumando tutte le risorse rimaste, usando i mobili come legna per il riscaldamento e tutti i beni portati dagli sfollati.
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Eppure il “padrone” Cav. Guccini, non consentì mai che un capo di bestiame fosse ucciso per alimentare gli abitanti, divenuti numerosi con gli sfollati, né che altre risorse fossero messe a disposizione. Né d’altra parte noi avevamo il coraggio di sfidarlo assumendo per conto nostro una decisione. Allora il “padrone” era potente e Guccini oltre tutto era amico dei governanti del momento. In più c’era il fatto che egli stesso viveva al Casone e perciò teneva tutto sotto controllo, faceva osservazioni su ogni cosa, pretendeva che tutto si svolgesse a suo piacimento.
Io e Renato scalpitavamo (gli altri due erano troppo piccoli.) reclamavamo perchè non avevamo mai un soldo in tasca e ogni anno, ai “conti” risultavamo debitori. Così del resto, per quanto ricordo, era stato anche prima, quando il povero zio Domenico (Mingarino) si scervellava per capire il mistero. Ma io e Renato eravamo convinti che al Casone i conti dovevano quadrare e lasciare qualche margine di utile. Mio padre, mio madre, la nonna Caterina ci raccomandavano di stare buoni, di essere condiscendenti e “rispettosi” con quell’atteggiamento che è tipico del vecchio contadino subordinato. Ma erano prediche inutili, perché noi continuammo a lamentarci e a rimbeccare, tanto che per causa mia alla fine del ’43 avemmo lo sfratto per l’ 11 novembre 1944. Lo sfratto non ebbe poi seguito per le vicende della guerra e si realizzò nel 1945, anche se allora Guccini, sarebbe stato più contento se fossimo rimasti.
Le cose andarono così, Guccini, che fino ad un certo periodo abitava al Casone di Sotto, pensò bene (forse ritenendosi più sicuro) di trasferirsi al Casone di Sopra (distanza circa mezzo chilometro), ma il cavallo doveva ogni sera essere riportato al Casone di Sotto, per essere poi prelevato il mattino successivo.
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Il compito toccava quasi sempre a me, col divieto assoluto di montarlo e seguendo la strada predeterminata. Siccome la cosa cominciava a scocciarmi, presi l’abitudine di sellare il cavallo e non solo di montarlo, ma di fare anche qualche galoppata. Una sera il cavallo mi scappò e con l’aiuto di altri lo riprendemmo alla Canova. Guccini che seppe tutto pretese che mio padre mi desse una lezione ” materiale”. Al suo rifiuto corrispose l’intimazione di sfratto.
I sacrifici maggiori erano dati dalla mancanza di denaro corrente, che veniva regolarmente incamerato e tenuto dal padrone.. Noi compravamo il sale con il ricavato delle uova e di qualche pollo, unici prodotti amministrati da noi. Ma ciò non consentiva di provvedere degnamente al vestiario, alle scarpe e fra le tante altre cose, alle esigenze che anche noi, ormai giovanotti cominciavamo ad avere. Poi vennero altre difficoltà. Secondo le leggi di guerra dovevamo consegnare i prodotti all’ “ammasso” gestito dal Comune, o meglio dai fascisti che disponevano di tutto.
Il grano andava consegnato tutto, tranne due quintali per ogni componente la famiglia, un quintale e mezzo per i bambini, ma questo grano andava macinato mischiato a granoturco, affinchè il pane fosse nero e la quantità aumentata. Si doveva inoltre consegnare una parte del maiale che solitamente il contadino macellava e custodiva per sé. E al Casone era diffide infrangere queste regole per i controlli del Guccini e per il movimento di persone che avrebbero potuto parlare e che comunque noi temevamo, anche se in verità nessuno mai ci creò dei problemi. Anche quando Renato fu partigiano, quando Brascaglia Silvio dopo aver lavorato a casa nostra, prese la stessa decisione e fu presente la notte in cui i partigiani vennero a prelevare il deposito sepolto di Guccini, nonostante fosse riconosciuto, nessuno degli sfollati fece mai cenno a quei fatti.
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Ricordo la soddisfazione di quella notte. Avevo lavorato assieme a mio padre e a Brascaglia per scavare una fossa dentro al portico degli attrezzi, dentro la quale Guccini sistemò prosciutti, bottiglie di vino e altri generi fra cui una grossa quantità di sigarette “Tre stelle” e “AOI” (Africa orientale italiana) che erano da tempo introvabili. Lavorai ancora per riaprire la fossa quando i partigiani della formazione locale, comandata da Costantini Gino (1), della quale erano parte molti giovani di Razola (e di zone vicine) vennero a prelevare il tutto e toccò a me con i buoi e il barroccio compiere il trasporto fino a Razola. Guccini ci rimase molto male, ma non fece interrogatori, né commentò l’episodio davanti alle persone del Casone.
Imparammo poi a farci più furbi, macinando piccole quantità di grano senza miscelarlo, usando all’inizio il macinino del caffè, naturalmente a mano e poi visti gli esiti piuttosto scarsi prendemmo la via della “Molina” di notte e con piccole partite portate a spalla, che “Andrichei” ci macinava di nascosto. Credo che questo piccolo mulino posto sull’Aneva, oltre Casa Righi, abbia a quei tempi fatto contenta molta gente.
Infatti il servizio veniva fatto per una parte di sfollati. Al Casone di Sopra c’era molta gente. La famiglia del Capo stazione Zanni, parente del Guccini, coi quali non avevamo un rapporto di molta cordialità. La famiglia Marchi che si prodigò sempre per aiutare chi aveva bisogno. Nel dopoguerra con parte dei fratelli Marchi abbiamo avuto anche scontri aspri, ma l’obiettività vuole che si riconosca il loro disinteressato e solidale comportamento. Poi c’erano Oscar e la moglie che sono sempre rimasti in contatto con noi. C’era la famiglia Venturi, ferroviere con tre figli e la moglie Giannina.
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Al Casone di Sopra dopo il grosso bombardamento dell’agosto, trovò spazio anche il Prete, don (Enzo) Pasi, che diceva messa e confessava nell’ingresso a pian terreno. Così il movimento delle persone aumentò ancora. C’era anche la famiglia Rubini della Ghiaia, che ebbe la figlia ventenne uccisa dal bombardamento a Vergato.
Con tutti avemmo un ottimo rapporto. Ma per quanto mi riguarda un particolare ricordo lo conservo sulla famiglia Venturi. Il figlio Valerio, mio coetaneo, mi aiutava nel lavoro, visto che nel ’44 eravamo rimasti in pochi a far andare avanti il podere, mi era compagno in varie peripezie, come nel trasporto di Franco all’Ospedale di Roffeno, ma soprattutto mi aiutava a recuperare armi e cartucce da portare ai partigiani.
Valerio si era arruolato nell’estate del ’44, nella milizia fascista e faceva parte di un gruppo incaricato di sorvegliare la ferrovia, i ponti e altri obiettivi dagli attentati compiuti dai partigiani.
Per la verità a favore di questi arruolamenti di giovanissimi, che ebbero il via dopo l’ 8 settembre 1943 appena risorto il regime e formata la RSI, giocarono anche fattori psicologici tipici: la divisa,
il porto delle armi, una certa autorità (di cui alcuni abusarono fino a diventare vere e proprie carogne) e fattori economici perché ricevevano un compenso che era difficile trovare altrove, anche perché non c’era lavoro da poter trovare. Nei rapporti con Valerio non cambiò nulla, lui mi portò un paio di fucili, molti caricatori, alcune bombe a mano e candelotti di dinamite. Altro materiale lo facevamo fuori ai tedeschi che molto spesso stazionavano per qualche giorno al Casone. E siccome io custodivo il bestiame che avevamo portato a Bago perchè non ce lo razziassero, conoscevo molti partigiani, tramite i quali ebbi il primo incontro con Quadri Antonio, figura mitica in quel tempo nella zona e Commissario politico della formazione partigiana locale, al quale consegnai sempre il tutto.
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Ricordo che la prima volta ci rimasi male. Mi aspettavo almeno un “bravo” e invece mi sentii dire che il materiale era poco e che avrei dovuto trovarne di più. Col tempo imparai che Antonio Quadri era fatto così e nei circa 15 anni che abbiamo lavorato insieme nel Partito, ho imparato a riconoscere dai suoi modi il grado di soddisfazione che provava davanti agli avvenimenti.
Prima dell’autunno Valerio venne trasferito e ci rivedemmo soltanto a liberazione avvenuta. Non fu presente neppure a Tolè, quando nel dicembre ’44, durante un bombardamento la sorella minore bruciò viva colpita da una bomba al fosforo.
Ma il personaggio più significativo resta sempre la mamma di Valerio, la “Giannina”, toscanaccia e chiacchierona, con i suoi 45-50 anni, e almeno un quintale di peso, irradiava coraggio e senso di sicurezza a tutti e si offriva volontaria ogni qualvolta i tedeschi avevano lavori da compiere, per salvare gli uomini e permettere loro di nascondersi. Ricordo che una volta si offrì di portare un rotolo di filo telefonico di almeno 50 – 60 Kg. fino a Serra di Gatto, e tornò a notte inoltrata stanca morta, mentre noi ci eravamo sottratti alla ricerca riparando nel bosco. Così come ricordo le sue marce per portarci i viveri quando il Casone era pieno di tedeschi e noi ci allontanavamo per più giorni stabilendoci nelle caverne naturali dei boschi più vicini.
La “Giannina” veniva poi mandata in avanscoperta per accertare se un luogo era libero, se i tedeschi erano presenti in un certa località, se si doveva mandare merce a qualcuno. La Giannina mi fu compagna in varie peripezie. Le nostre visite alla Molina, i rifornimenti che tenevamo a Bago, la ricerca di generi alimentari, in particolare il sale e l’olio divenuti introvabili, ci vedevano sempre in coppia, sotto le bombe e le cannonate.
Durante l’estate ’44 vi furono due episodi che mi va di ricordare qui. Il primo accadde durante un rastrellamento nella zona di Razola. Quel territorio, ove ha vissuto Quadri Antonio, è sempre stato ostile al fascismo, né alcun abitante del luogo si è mai arruolato né nella milizia prima, né nella RSI dopo, con l’unica eccezione del “Castler” dal nome del podere Castellaro, che però non si fece più vedere in zona.
Razola ha sempre dato ospitalità ai partigiani o forse, è meglio dire che in qualche misura tutti gli abitanti sono stati partigiani…
Nel periodo vi furono due fatti: uno scontro a fuoco a Casa Righi con i tedeschi e l’attentato a Cristalli, noto criminale fascista, massacratore dei fratelli Benassi e Lolli ai quali è stato elevato un cippo ricordo, sul monte che domina Tolè dopo Predaneva. Cristalli che era segretario del fascio e dominava con i suoi scherani Vergato e Castel D’Aiano, era solito percorrere la provinciale di Cereglio guidato da un motociclista. Quel giorno Cristalli volle guidare personalmente la moto e il suo autista sedette perciò sul sellino posteriore. Così le raffiche che i partigiani gli spararono fra Ca’ Plita e Marano, prima di Susano, crivellarono l’autista e lasciarono illeso Cristalli che ruzzolando sul terrapieno e nel campo sottostante se la cavò con qualche graffio e ammaccatura.
Dopo questi avvenimenti prese il via il primo rastrellamento, fatto dai soli tedeschi in tutta la zona di Razola. Era una notte del tardo estate piena di luce irradiata da una magnifica luna. I partigiani erano partiti pochi giorni prima e solo un paio erano rimasti a casa per motivi famigliari. Li avevo visti sfilare dopo la mezzanotte verso il Vergatello, da cui risalirono in direzione di Susano per raggiungere Monte Pero e Cà di Radicchio ove avevano una loro base.
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I tedeschi non trovarono resistenze. Fecero a Bago il punto di riferimento e ogni uomo preso veniva portato li in attesa di concludere l’operazione. Io dormivo di fronte alla casa, all’altra estremità dell’aia, in una piccola costruzione che serviva come magazzino, mentre al piano di sotto era sistemato il pollaio. Da uno spiraglio della porta vedevo l’aia e l’ingresso della casa, seguivo i movimenti (riconoscevo gli arrestati. I tedeschi entrarono più volte nel pollaio sotto di me sollevando un rumore infernale, ma non vennero mai al piano di sopra. Io rimasi fermo e immobile fin dopo le 2 della notte, cioè fino a quando al Serretto, uno dei ricercati fuggì, gli spararono e incendiarono la casa. Davanti agli spari e al fuoco la paura ebbe il sopravvento, così che quando mi parve essere l’aia libera me ne uscii e quatto quatto mi avviai, sul tratto di cavedagna che da Bago porta alla strada per Finocchia. Nei pressi di una buca scavata per raccogliere acqua da abbeverare il bestiame, a circa 50 metri dalla casa, erano stati fatti due pagliai, che costeggiai sfiorandoli per nascondermi dalla luce troppo intensa della luna. L’obiettivo era quello di raggiungere il crinale, ormai vicino, e buttarmi giù per i campi nel versante opposto verso l’Aneva.
Non avevo però previsto che i tedeschi rimasti a Bago si fossero divisi i compiti e mentre alcuni badavano i prigionieri, altri si erano messi alla caccia di donne. Ne avevano trovate tre e una di queste fu portata dal tedesco fra i due pagliai, in sostanza inciampai nella coppia e per fortuna percorsi a razzo gli ultimi metri, mentre la donna fece perdere tempo al soldato che quando sparò io già ruzzolavo sull’altro versante. So che poi la signora, a cui sono sempre rimasto grato, anche se essa non ricorda volentieri l’episodio, ebbe delle minacce che per fortuna non furono compiute.
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Io mi fermai solo a Casa Righi dove bussai alla porta di una lontana parente che ricordo come “Linda”, che era sempre vissuta in Francia e vi tornò a guerra finita.
Il giorno dopo toccò ancora alla Giannina recarsi a Bago per dare e cercare notizie su quanto era accaduto.
Il secondo episodio si verificò un pò più avanti, verso l’ottobre, durante una giornata piovosa tipicamente autunnale. I tedeschi si organizzavano con una linea del fronte nella prospettiva che gli alleati avessero attraversato il Reno. I partigiani avevano già attraversato la linea. Fu così che i tedeschi raccolsero alcuni uomini in località Oste, misero la corda al collo di uno di essi (Mei Giuseppe di Rapolo) affermando di voler dare un esempio allo scopo di far rigare tutti per il verso giusto. A quel punto Erminio della Canova tentò la fuga buttandosi per i campi. Gli spararono facendolo secco. Andai con altri a raccoglierlo nel fango e lo portammo nel portico su un barroccio. Fu la salvezza di Mei a cui tolsero la corda soddisfatti per l’esempio dato, ma fu anche una scena straziante e indimenticabile, soprattutto quando la moglie e i numerosi figli, tutti piccoli, giunsero sul posto.
Decisi che non serviva più a nulla restare nella zona. Tornai a Bago dove avevamo ancora un paio di buoi, li presi, scesi sul Vergatello per tornare a casa. All’improvviso si scatenò un forte fuoco di artiglieria da cui mi riparai dietro a un pagliaio vicino al podere Balla. Ripreso il cammino raggiunsi il Vergatello. Sentii non molto lontano una pattuglia tedesca. Non so che ragionamento feci in quel momento. So che slegai i buoi, li lasciai andare, schivai la pattuglia inoltrandomi nel bosco e tornai a casa da solo.
Questa volta Guccini protestò con veemenza e minacciò di farmi pagare il prezzo dei buoi. Stavolta gli risposi con uguale tracotanza che andasse lui a riprenderli.
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E invece toccò ancora a me e alla Giannina. Infatti i buoi tornarono da soli nella stalla di Bago, preoccupando molto gli abitanti locali, soprattutto la Maria che era sempre stata molto gentile con me, per la sorte sconosciuta che mi era toccata. Furono contenti di rivederci, dopo qualche giorno in quella che fu l’ultima visita prima dello sfollamento.
Purtroppo non a tutti andò bene come a me. Gli uomini rastrellati nelle due occasioni furono portati in Germania, tranne alcuni che fuggirono da Cereglio durante la marcia e non tutti sono tornati.
Con la Giannina ci siamo rivisti dopo la guerra diverse volte.
Era ormai come uno di casa. Quando morì a cavallo degli anni ’70 ne soffrimmo tutti come fosse un parente stretto.
Chi ne ha sofferto di più di tutte le vicende è stata senza alcun dubbio la mamma. I figli dispersi e in mezzo a pericoli continui, le difficoltà economiche che da sempre l’hanno travagliata, il lavoro massacrante che è sempre stata costretta a fare, la preoccupazione costante di aiutare gli sfollati, la morte della nonna e poi la notizia che per alcuni mesi tenne solo per se, della morte della zia Silvia e del marito Mauro, alle Ganzole sotto il rifugio crollato a causa di una frana, l’avevano fortemente colpita. Non è a caso che la mamma sia sempre stata, da tutti quelli che l’hanno conosciuta, ammirata, stimata e benvoluta e sempre ricordata anche a decenni di distanza. E’ stata una donna eccezionale, che ha conosciuto ogni sorta di privazioni, il cui unico scopo era il lavoro, e che spesso ha subito sanguinose umiliazioni per quello che non poteva dare a tutti noi. La sua morte prematura è maturata lentamente nel tempo e il colpo di grazia è venuto con la morte di Renato a 42 anni e più recentemente con quella del babbo.
Raccontare oggi gli avvenimenti, così come li abbiamo vissuti, da persone semplici e fuori da ogni impegno attivo, che si sono verificati dal ’43 al ’45, si rischia di cadere nella retorica senza riuscire nell’intento e non so quanto possa servire ad altri. Ma è stato un momento così unico che non può essere accantonato o peggio dimenticato… continua!
(1) - Gino Costantini (31.01.1918). Capotreno in pensione, prestò servizio militare in Marina dal 15 febbraio al 21 aprile 1938. Assunto nelle Ferrovie nel 1941, fu licenziato agli inizi del 1944 per attività sovversiva. Dal mese di giugno entrò nella Resistenza, prima come componente della brigata "Stella Rossa Lupo" e poi come comandante della formazione autonoma "Pilota", inquadrata nella brigata "Servino Folloni" della divisione "Modena Armando". Riconosciuto partigiano col grado di tenente, a fine guerra fu assunto di nuovo nelle Ferrovie. Visse a Vergato (BO) dove presiedette la locale sezione dell'ANPI.
Rino Nanni – ESPERIENZE E RICORDI DEL PASSATO Aprile 1945 – Ottobre 1981
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