A proposito del Capitano (Il Capitano nella Commedia dell’Arte)
2019/08/21, Vergato – Ritorna Umberto Bernardi, del Circolo Galeazzo Marescotti di Vergato, maestro burattinaio e autore di commedie, organizzatore di spettacoli. Conclusa la stagione 2019 con un successo di pubblico composto da bambini e accompagnatori, ora ci porta a conoscenza un po di storia di questa arte dove Vergato è da decenni protagonista.
A proposito del Capitano – (Il Capitano nella Commedia dell’Arte).
Il Capitano è una delle più antiche maschere della Commedia dell’Arte. la sua genesi risale addirittura ai tempi dei romani con il “miles gloriosus” di Plauto, rinato in altre forme nel teatro italiano del 1500 inpersonificava a volte il soldato di nobili sentimenti ed estroso o il vanaglorioso spaccone che si vantava di titoli non posseduti e di imprese mai compiute: in entrambi i casi malcelava in realtà il terrore di dover affrontare una battaglia o un duello, contrariamente a quanto invece affermava di continuo a parole.
Celebri capitani del palco furono Francesco Andreini con Capitan Spaventa e Silvio Fiorillo con Capitan Matamoros, che tratteggiarono due personaggi con la stessa derivazione ma estremamente differenti tra di loro. Mentre Capitan Matamoros è borioso, spaccone e sostanzialmente ridicolo, Capitan Spaventa è la controparte seria e sognatrice di nobile animo e alti sentimenti, quasi un sognatore.
Ispirate alla maschera sono numerosi varianti come Capitan Giangurgolo, Capitan Corazza, Capitan Cardone, Rinoceronte, Terremoto, Spezzaferro, Spaccamonti, Capitan Rodomonte. Sempre al capitano sono riconducibili poi numerose derivazioni della maschera adottate dal carnevale napoletano o più in generale dalla letteratura, come Capitan Fracassa.
Anche il nostro teatrino dei burattini ha il suo “Capitano” il suo nome è Ghiterra Spadacc un gendarme inventato nel 1870 da Angelo Cuccoli, in origine erano due figure: Ghitarra e Spadacc, in seguito per comodità, unificate in un unico prsonaggio. Come scrive il maestro burattinaio Romano Danielli “ Gendarme arrogante e chiassoso che vorrebbe arrestare tutti, ma finisce per prendere solamente bastonate. Il costume è simile a quello dei carabinieri piemontesi del 1820.”Questo burattino ha i suoi antenati (si fa per dire, trattandosi di un personaggio inventato) nella commedia dell’arte. Ghiterra parla, nel teatrino dei burattini, un italiano con accenti meridionali forse per ricordare i gendarmi borbonici. L’origine del suo nome ricorda certamente la spada (è infatti un uomo d’armi) nella seconda parte, la prima parte del nome invece potrebbe derivare dal cicaleccio prodotto da uno strumento come la chitarra (perchè no, scordata) o dal bolso riecheggiare della tosse che, appunto nel dialetto romagnolo viene detta “ghitara”.
Sulla figura del Capitano, già nel finire del cinquecento, Giulio Cesare Croce scriveva dell’Arcibravo Smedola Sfonna Pieddi, un Bravo che amava vantarsi di chissà quali avventure, concluse a suo favore.
BRAVATE, RAZZATE, ET ARCIBULATE
Del Arcibravo Smedola vossi, sfonnapietti,
sbrana Leoni, sbudella Tigre & anciditore
de gli Huomini muorti. Chillo, che fran-
ge li monti e spacca lo Monno per lo
miezzo & in somma l’arcibravura,
terrore e tremore della Terra,
e de l’Infierno
opera bizzarrissima e nuova.
Giulio Cesar Croce
Io son quel gran Smedolla sfonna pietti
Ch’a un sguardo sol faccio sparir il Sole,
Fugon i tigri e l’orsi al mio cospetti
Il mondo trema al suon di mie parole
Mangio piastrin, trangugio corsaletti,
E pongo in fuga le tartaree scole,
E dove movo, e dove giro il passo,
Faccio fuggir Plutone e Satanasso.
Son tanto altiero, rigido e superbo,
Ch’alla mia forza ogn’altra forza ciede;
Spiezzo, rompo, fracasso, frango e snerbo
Chiunque inanzi a me rivolge il piede,
Vo’ fra le selve, e col mio viso acerbo
Fo’ di leoni e draghi orribil prede,
E spesse volte per saziar i denti
Trangugio vive vipere e serpenti.
Però di Sfonna pietti il nome tiengo,
ch’al braccio mio non è nissun che possa
resistere, e ben spesso a pugna vengo
con coccodrilli e grifi e faccio rossa
la tierra del lor sangue, e mi trattiengo
di basilischi a mensa e in una scossa
gitto le torri a terra, e vo’ sì dentro
che fo’ tremar la terra e tutt’ il centro.
E’ tal di Sfonna pietti il gran valore,
ch’a un polo e all’altro si dilata e stende,
E con lo sguardo sol porto terrore
al monno tutto, e un mio sospir accende
l’aria d’intorno, ond’il mio gran furore
le nubi passa, e fin al cielo ascende;
e se il mio nome giunge in quella parte
si cac(l)an nelle brache Ercole e Marte.
L’autro giorno il Turco maleditto
havendo udito della mia bravura,
mannò a sfidar lo forti Sfonna Pietro,
pensanno di cacciarmi in sepoltura.
io comparisco in campo, e non aspietto
altro se non che il piglio in centura
e lo mannai tant’anto ch’abbrugiato
restò dal sole, & era tutto armato.
Venne l’altra mattina un elefante,
per voler far di me stragi e macello.
Io con un de’ miei pugni aspro e pesante
Gli do’ sul capo, e li schiaccio il cervello
E poi lo spacco da capo a le piante
E della pelle mi faccio un mantello
qual porto indosso, quando sopra i monti
vado a combatter co i renoceronti.
Mi fu sparata d’un artigliaria
Sotto Strigonia, che scalavo il muro.
Quando miro la palla che veniva,
Alzo lo braccio mio forte e sicuro
E la fermo di posta per la via
Con la mano, e di nuovo dientro il muro
La tiro con tal forza e tal potere
Che mille torri a terra fei cadere.
Con un sol calcio spianai Mongibello
E trei giù la fucina di Vulcano,
Ed a un cicloppo sfonnai lo cervello
E presi un drago vivo con la mano
E tirai via la coda a Farfarello
E con un sol sospir arsi un villano
E nel soffiarmi il naso una mattina
Ruppe sei navi al porto di Messina.
Mangiai a cena l’altra sera un orso
Che con un dito solo avea spaccato,
E al gran Sofì, che mi ciedea soccorso,
Andai, e in quattro colpi ho sbranato
Cavalli, homini e bestie, e misi il morso
In bocca a un giganton, ch’era fatato,
E perch’egli era forte, grande e grosso,
Di Persia a Napoli fei portarmi addosso.
Cento leoni vennero assaltarmi
Per voler far di me rapina e pasto,
Io tutti li sfonnai, senz’haver armi
E perchè non mi fesser più contrasto
E mai più noia potessro darmi,
Gli getto in aria, e così ben gli arraffo
Che mi vien scritto fin dal re di Dacia
Ch’andar di là dal mondo cento braccia.
Fui assaltato da un feroce drago
Che per tutto gettava fiamma e foco.
Io, che fin quando nacqui ogn’hor fui vago
Di pugnar con le bestie, e in tempo poco
Lo caccio in terra, & un antropofago
Pur anco ancido nello stesso loco;
Né mi parea finita la tenzone,
Se non spaccava a mezzo un listrigone.
Ma state a udire, e riderete tutti,
Ch’un giorno combattei contra chimera
E la gettai a terra con due rutti,
E dopo lei, sbranai l’empia Megera.
E a mille mostri spaventosi e brutti
Cavai il core e lo mangiai la sera:
A un leopardo presi in un boschetto
e la mia donna ne fece un guazzetto.
Mill’altre prove ho fatto segnalare
Che scritte son sul libro dell’Inferno:
Tagliate gambe, braccia distaccate,
Frant’ossa, e fatto foco a mezzo il vierno,
Terre abbrugiate, mura fracassate,
Spianate rocche, e tolto lo govierno
A duci, re, baroni e gran signori
E fattomi padron de i lor tesori.
Lo nome mio, quando nomato viene,
trema lo munno e fa lo terremoto,
A i diavoli n’accresocno le pene,
E di bestie ogni campo resta vuoto;
E però chi mi schiva farà bene,
Perché il mio gran valor v’ho fatto noto.
Hor viva Sfonna pietti a tutte l’hore
Qual degl’huomini morti è anciditore.
I testi sono tratti dalle copie digitali realizzate nel 2006 dalla biblioteca Comunale dell’Achiginnasio e dal paziente lavoro di trascrizione nel sito
giuliocesarecroce.it/trascrizioni.htlm